Suez, bel suol d’amore

È proprio vero che una cosa la si apprezza quando la si perde. Sta accadendo con la nuova “crisi di Suez” – la prima risale al 1956 – a causa della quale il Sud Europa in generale e l’Italia in particolare vedono messo a rischio il traffico delle merci che transitano attraverso il Canale. Colpa dei terroristi yemeniti delle milizie armate Houthi i quali, attentando alle navi occidentali nel Mar Rosso, stanno di fatto mettendo sotto scacco l’economia di una parte dell’Europa. Una situazione preoccupante che può diventare insostenibile se non si fa qualcosa di concreto per impedirlo. Al momento, a difendere gli interessi europei provvedono gli Stati Uniti d’America che, con le proprie navi e il supporto della Marina militare britannica, stanno bombardando – nell’ambito dell’operazione internazionale Prosperity Guardian – le basi missilistiche Houthi. Come sempre, è lo zio Sam a fare il lavoro sporco per gli europei. Che, a loro volta, restano alla finestra paralizzati da tutte le ambiguità e le contraddizioni connaturate alla pseudo unità europea.

Tuttavia, per non mostrarsi del tutto inconcludente ieri l’altro il Consiglio dei ministri degli Esteri della Ue, presieduto dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, lo spagnolo Josep Borrell, ha annunciato la predisposizione di una missione navale di difesa comune europea a tutela dei traffici mercantili nel Mar Rosso. Ma è solo un piccolo, timido passo condizionato da troppi limiti. In primo luogo, la missione non è immediata. Ieri l’altro se ne è cominciato a discutere su impulso di Italia, Francia e Germania che, se si vuole, è già questa una notizia in sé. La maggior parte degli Stati membri non si è opposta ma, alla faccia della solidarietà intracomunitaria, non intende parteciparvi attivamente con propri mezzi e uomini. In secondo luogo, il via-libera definitivo vi sarà – se vi sarà – il prossimo 19 febbraio in occasione di una nuova convocazione del Consiglio dei ministri degli Affari esteri dell’Ue. Un’eternità rispetto all’evoluzione della crisi in corso. In terzo luogo, la scarsa consistenza della flotta impegnata nell’operazione.

Al momento, si prevede il dispiegamento di solo tre navi, messe a disposizione da Italia, Francia e Germania. In seguito, si vedrà se altri partner comunitari vorranno unirsi alla spedizione. Questo a ennesima riprova che la missione è europea solo sulla carta. In quarto luogo, non sono state definite le regole d’ingaggio della missione. Si sa che sarà esclusivamente a difesa dei mercantili bersaglio delle batterie missilistiche degli Houthi. Basterà intercettare gli attacchi? Certamente no. La capacità di risposta dovrebbe, di regola, prevedere l’annientamento dei sistemi d’arma da cui provengono gli ordigni esplosivi. Ma su questo terreno l’inesistente Europa continua ad annaspare non riuscendo più a nascondere, dietro la stucchevole retorica degli ideali di pace, una strategia opportunistica indirizzata all’appagamento di meschini interessi egoistici. Già, perché bisogna che ci si parli chiaro. L’Europa non c’è neanche questa volta perché non riesce a esprimere un interesse complessivo unitario da contrapporre alle pretese di tutti gli altri attori della scena internazionale. Vi sono partner europei che non piangerebbero se si arrivasse allo stop definitivo del traffico marittimo a Suez. La verità è che queste nazioni fanno il tifo per la chiusura del Canale perché, se la circumnavigazione dell’Africa divenisse il passaggio obbligato delle merci da Oriente verso l’Europa e viceversa, ne trarrebbero immensi guadagni per i loro sistemi portuali.

Per essere ancora più espliciti: poco importerebbe agli amici spagnoli e del Nord Europa se il Mediterraneo diventasse un enorme Mar Morto. Ne consegue che la crisi di Suez resta un affare italiano e, in parte, della portualità francese nel Mediterraneo e dell’apparato industriale tedesco che trae grandi vantaggi competitivi dall’accorciamento delle rotte Oriente-Europa che attraverso il Mar Rosso terminano nei porti dell’Adriatico e del Tirreno. Non si illudano però i recalcitranti partner europei, pronti ad accoltellarci alla schiena. Le nuove rotte non saranno rose e fiori neanche per loro. La circumnavigazione dell’Africa, infatti, non comporta solo un maggiore costo dei noli e un allungamento dei tempi di trasporto delle merci. Crea pericoli che le compagnie di navigazione non ignorano. Le navi che dall’Oriente dovranno raggiungere l’Europa passando da Sud saranno costrette ad attraversare l’Oceano Indiano dalla parte dell’emisfero australe, che è una navigazione ben più impegnativa di quella che consente di tagliare verso il Mar Rosso costeggiando la penisola arabica. C’è poi da doppiare il Capo Aghulas – la punta più a Sud del continente africano – che sebbene non sia complicato come per Capo Horn (mitica estremità meridionale del continente americano) spinge pur sempre le navi a lambire i “40 ruggenti”, la fascia di mare compresa tra i 40 e 50 gradi di latitudine Sud, caratterizzata da condizioni meteo-marine al limite della praticabilità per la navigazione. Resta poi da risalire l’Atlantico costeggiando le sponde dell’Africa occidentale che non è la zona più tranquilla del mondo in fatto di sicurezza. Non è un caso che sia attiva nel Golfo della Guinea l’operazione Gabinia della Marina Militare italiana, volta a proteggere dalla pirateria gli interessi nazionali nell’area. Ovvio che valgano le medesime perplessità per il percorso fatto all’incontrario.

Lo abbiamo scritto e lo ribadiamo: non esiste alternativa alla normalizzazione del traffico marittimo nel Mar Rosso. Se per raggiungere tale obiettivo bisogna rispondere a cannonate a chi vuole ricattarci a causa della vicinanza dell’Italia a Israele, ben vengano le cannonate. Alla missione europea è stato assegnato un nome pretenzioso: Aspides, dal greco ἀσπίς, che vuol dire scudo. L’auspicio è che la missione sia davvero uno scudo impugnato a difesa dei nostri interessi vitali. Purtroppo, per quel che abbiamo visto finora, nonostante le buone intenzioni del Governo italiano, più che uno scudo a noi sembra un francobollo. Tre sole navi destinate al pattugliamento di un tratto di mare che si estende, dal Golfo di Hormuz al Canale di Suez, per oltre 2.300 miglia nautiche? Sappiano gli amici del giaguaro islamista a Bruxelles che le prese in giro questa volta non saranno gradite.

Aggiornato il 24 gennaio 2024 alle ore 10:10