Siamo al tramonto del percorso annuale. Ci aspetta il Natale, che però non sarà una lunga pausa vacanziera. Anzi, sarà brevissima. Il tempo di un weekend. Sarà ridotta anche perché i tempi non permettono festeggiamenti prolungati. C’è una guerra in corso a complicarci la vita, che non può essere derubricata a un pensiero che la mente non contempla. Questa guerra è una tragica realtà e il suo peso grava anche sulle spalle indebolite di un Occidente declinante per innumerevoli poco commendevoli ragioni. Il costo eccessivo dell’energia elettrica ha spento le luci di Natale. Già, quelle luminarie che trasformano i mille campanili delle cittadine e dei borghi italiani in altrettanti presepi sospesi nel cielo della nostra fanciullesca fantasia. I denari che sono pochi e le famiglie in difficoltà economica, che sono tante. E poi, un Covid bastardo che è stato sconfitto, ma non è stato annientato. È ancora lì, dietro l’angolo, a tenere vivo il fuoco sotto la brace delle nostre ancestrali paure di canne piegate al vento del destino.

Ma che Natale sarà? Per paradosso, sarà vero. Più di altri del passato, perché forse casualmente fedele allo spirito autentico dell’evento palingenetico inverato dal simbolismo della nascita del Cristo Redentore. Per molti anni ci siamo cullati nel tepore del Natale-festa del consumismo, fatto di piacevolezze, di doni, di sprechi e di gioia goduriosa. La mangiatoia, il bue, l’asinello, i pastori? Complementi d’arredo di un presepe chic, fashion, che sta a pennello con lo spirito dei tempi, tutto mainstream e politamente-corretto. Il Natale del “Panettone versus Pandoro”. Il Natale delle spese last minute e dei regali stupidi. Il Natale delle tazze a forma di puffi con quello stucchevole sottofondo di “ti penso” che risuona più stonato di una chitarra scordata. Il Natale delle tante, troppe, presine per pentole adagiate sotto l’albero e scambiate per manifestazioni genuine del sentimento umano dell’amore.

Ora, per forza di cose e di conti che non tornano, tutto sarà più asciutto. Ai bambini non piacerà. E non piacerà a molti adulti che non sono mai cresciuti. Ma quando la dura realtà quotidiana s’impone, il mondo patinato delle reminiscenze infantili deve farsi da parte. Anche spiritualmente accade qualcosa che genera una trasmutazione. Il Natale, meno opulento e meno gaudioso, sposta l’accento del fattore epifanico dalla felicità per la Natività alla partecipazione al senso del tragico che è dato dal travaglio e poi dal parto di Maria. In una sorta di crossing-over, il fulcro della celebrazione dell’evento doloroso e sofferto della natività si sposta dal partorito alla partoriente. Il Cristo è la speranza della salvezza dell’umanità che verrà; Maria è la rappresentazione del dolore del vivere presente. Maria è madre, ma ancor prima è donna. E se questo Natale, per ragioni di cui probabilmente molti tra noi volentieri avrebbero fatto a meno, ci avvicina a quella forma archetipica del dolore che sta nel non-racconto del parto, è giusto che si parli di lei, di Maria.

Ma qual è oggi il suo volto autentico? Quello severo, austero della Madonna d’Ognissanti di Giotto o quello angelicato, vertigine di ogni idealizzazione della bellezza e della grazia femminile, della Madonna del Granduca di Raffaello Sanzio? Con i tempi che corrono, né l’uno né l’altro. La Maria di cui parlo, che prende congedo dai fasti e dalle stoffe dei presepi settecenteschi, è la stessa dipinta a chiare note dal Giorgio Gaber delle canzoni contro la guerra quando, in un lontano 1973, metteva in scena, insieme a Sandro Luporini, in “Far finta di essere sani”, il suo grido di dolore e il suo ghigno di scherno contro il conformismo della violenza. “Chiedo scusa se parlo di Maria”, la ricordate? Forse no, allora riascoltatela e vi accorgerete quanto quella canzone, a mezzo secolo di distanza, sia maledettamente attuale. Per Gaber, la Maria che gli parlava era la “Maria il Vietnam, la Cambogia/ Maria la libertà/ Maria la rivoluzione/ Maria la realtà”.

Già, Maria il Vietnam, la libertà, la realtà. E oggi? La mia Maria ha il volto delle donne iraniane, abusate e torturate dal regime misogino di Teheran; ha il volto della 22enne Mahsa Amini, arrestata e picchiata a morte dalla “polizia morale”, perché non indossava correttamente l’hijab. Maria è l’iraniana Aida Rostami, medico di 36 anni, morta in circostanze misteriose perché sospettata dalla polizia del regime degli Ayatollah di aver curato clandestinamente i feriti delle manifestazioni antigovernative. Maria ha il volto fresco, adolescenziale di Masoumeh, la quattordicenne morta qualche giorno fa a causa di una grave emorragia vaginale. Era stata arrestata dalla polizia di Teheran per essersi tolta il velo in classe. Voleva protestare per la condizione delle donne in Iran. Il potere ha avuto paura di lei. L’hanno stuprata con belluina ferocia. Sembrava un passerotto squartato, la piccola Masoumeh.

Nika Shakarami, 16 anni. Stessa voglia di libertà, stesso infausto destino. Se da qualche parte c’è un paradiso, tutte loro non potranno che essere lì, cullate da colei che le ha accolte in grembo. E Maria sono anche tutte le giovani donne afghane che da un anno, da quando gli occidentali sono fuggiti via dall’Afghanistan come conigli impauriti, subiscono ogni sorta di sopraffazione maschile e di negazione dei loro diritti di donne. Il volto di Maria irradia di sé il burqa che le tiene prigioniere, come l’immagine del volto del Cristo ha marchiato il sacro sudario. Ma il volto di Maria è anche quello delle madri, delle figlie, delle mogli di Ucraina. Un volto che è insieme di disperazione e di speranza, di paura e di orgoglio, di sofferenza e di lotta. Che è uguale al volto delle madri, delle figlie e delle mogli di Russia, che piangono e gemono per la sorta dei loro uomini mandati a morire in una terra umanamente remota.

Il volto di Maria è quello delle ragazze curde del Rojava, che combattono armi in pugno il turco invasore. Maria è bianca; è nera; è creola; ha tutti i colori dell’iride. Scrisse il sommo poeta: “Libertà, va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Libertà è donna. Se volessimo sfruttare questo Natale di austerity per fare qualcosa di rivoluzionario rispetto alla nostra routine quotidiana, dovremmo preoccuparci meno di quanto cibo finisca sulla tavola del cenone. Anzi, non dovremmo preoccuparcene affatto. Ma dovremmo impegnarci a pensare. A connetterci sentimentalmente con Maria che, scesa dal piedistallo al quale per secoli è stata relegata, sta lottando in tutte le situazioni, a noi vicine o lontane, nelle quali la libertà è negata, violentata, conculcata, oltraggiata. Prevengo l’obiezione: belle parole, ma poi all’orticello di casa chi bada?

Certo, se l’unica ragione dei nostri assilli è la cura di ciò che ci appartiene in senso materiale, lasciate perdere Maria e dimenticate tutte le volte in cui si è incarnata nel corpo di una donna sofferente, vittima del potere mortifero di uomini che odiano le donne. Ritornate pure ai vostri addobbi natalizi e alle vostre abbuffate che, per colmo di ironia, chiamate “Tradizione”. In fondo, che diritto ho di guastarvi la festa. Perciò, chiedo scusa se vi ho parlato di Maria. E comunque, buon Natale.

Aggiornato il 23 dicembre 2022 alle ore 09:48