Non è la Patrimoniale la risposta al problema dei salari

È vero: in Italia c’è un “problema dei salari”. In media negli ultimi 30 anni non sono cresciuti, anzi sono lievemente diminuiti. In un Paese normale ciò riguarderebbe il rapporto tra imprese e lavoratori; sono loro che, direttamente o tramite le rispettive associazioni, contrattano i salari. Sennonché, nel Belpaese un imprenditore, che voglia aumentare di 100 euro quanto un suo lavoratore riceve in busta paga, ne deve spendere circa 200; lì in mezzo sta il famigerato “cuneo fiscale e contributivo”, in altre parole la parte che – in varie forme – preleva lo Stato.

In un Paese normale si discuterebbe, dunque, di come ridurre quanto lo Stato pretende; poiché è uno Stato che non ha avanzi di bilancio, anzi è onerato da deficit e debito, si discuterebbe di quali spese dovrebbe tagliare, per potersi consentire di prelevare un po’ di meno sulle buste paga dei lavoratori. Nella politica italiana, in cui la spesa pubblica è divenuta la vera “variabile indipendente”, si discute invece di quali altre imposte aumentare.

A questo punto della discussione viene subito in ballo l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. Da diversi lustri, bisogna riconoscerne la coerenza, tra i primi a invocarlo è Maurizio Landini. L’argomentazione è semplice: è mai accettabile che il prelievo sui redditi da lavoro sia superiore al prelevamento sui frutti delle attività finanziarie? Semplice ma fallace. Anzitutto, perché falso è l’assunto di partenza: almeno per i lavoratori che hanno i redditi più bassi, quelli che più stanno a cuore di Landini, è vero il contrario. L’aliquota media effettiva che pagano sui loro redditi è inferiore al 26 per cento saldato sui rendimenti di un deposito bancario o di una obbligazione.

Fallace per un motivo ancora più grave, anche se un po’ meno semplice. Il prelievo fiscale sui redditi da capitale colpisce redditi nominali; in periodi in cui l’inflazione erode il valore del capitale, l’aliquota sul reddito effettivo è ben maggiore di quel 26 per cento nominale; spesso supera il 100 per cento, e si trasforma in una vera imposta patrimoniale. Un esempio semplice: una persona che disponga di 10mila euro sul proprio conto corrente e, fortunato lui, riceve un interesse del 2 per cento, con l’inflazione attuale di circa il 6 per cento a fine anno si troverà meno ricco: i suoi 10mila euro iniziali si saranno ridotti, in capacità di acquisto, a 9.600. Eppure, dovrà pagare 52 euro di imposte, su un reddito che non c’è.

Le cose per il risparmiatore del nostro esempio sono ancora peggiori: c’è da pagare anche una imposta di bollo; se divide i suoi investimenti fra depositi bancari e obbligazioni, e se sulle seconde perde dei soldi, non potrà compensare perdite e guadagni. Forse è venuto il momento, anche per Landini, di riconoscere che considerare la spesa pubblica una variabile indipendente fa danni non minori di quelli che fece negli anni Settanta del secolo scorso considerare variabile indipendente i salari.

Aggiornato il 08 giugno 2022 alle ore 09:42