L’ex ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha rotto un tabù: non possiamo noi giornalisti nasconderci dietro la libertà di stampa quando scriviamo nefandezze propagandistiche o quando le vomitiamo in televisione. Così come i pubblici ministeri non incantano più nessuno con la foglia di fico dell’indipendenza della magistratura, sempre evocata e invocata quando qualcuno chiede loro di pagare di tasca propria gli errori giudiziari di cui l’Italia è diventata una fabbrica seriale.
Terzi di Sant’Agata, infatti, ha ricordato – in un convegno dei Radicali sul diritto alla conoscenza – esempi emblematici di giornalisti condannati da tribunali internazionali, come quello di Norimberga o quello dell’Aja, per avere contribuito a fiancheggiare tiranni e stermini di vari tipo. In altre parole, anche la libertà di parola non è quella di dire parole in libertà. E, in questo momento di guerra totale tra Russia e il resto del mondo occidentale, la cosa è diventata delicatissima. Perché non tutti quelli che vanno in televisione a spararla grossa sono degli utili idioti di Vladimir Putin o dei narcisisti in cerca di autore e di audience. Quelli sono coloro che “ci sono”. Poi ci sono quelli che “ci fanno”. E hanno ragione al Copasir nel chiedersi perché “ci fanno”. Magari prendono soldi o altre utilità?
In tempi di Guerra fredda o semifredda queste persone, a mio avviso, vanno bandite dall’informazione – parlo di quelli che “ci fanno” – soprattutto da quella pubblica radiotelevisiva che, mentre dolosamente cerca di silenziare i referendum radical-leghisti sulla giustizia per fiancheggiare chi, come l’Associazione nazionale magistrati, punta al non raggiungimento del quorum nell’importante appuntamento di domenica prossima, dall’altra parte sovrabbonda di fenomeni da baraccone che vanno nei talk-show a fare i propagandisti o gli scemi del villaggio globale. Ma, come direbbero i partenopei, “ccà nisciuno è fesso”.
Aggiornato il 07 giugno 2022 alle ore 11:04