M5S, il partito più inutile della storia italiana

Il Movimento Cinque Stelle, secondo le aspirazioni dei fondatori, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, avrebbe dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e, sostanzialmente, diventare il dominus di un profondo cambiamento della politica italiana. O meglio, assumere il ruolo di protagonista di una rivoluzione senza precedenti, pur inserita in una logica pacifica e democratica. La classe politica cosiddetta tradizionale, sia di destra che di sinistra, doveva sparire oppure ridursi almeno al lumicino, obbligata a inseguire l’agenda pentastellata e ad adeguarsi mestamente ad essa.

Alle ultime elezioni politiche il 30 per cento degli italiani, comprensibilmente stanco dello status quo partitico, volle offrire una chance al progetto di Grillo e Casaleggio. Il M5S ha tuttora una nutrita rappresentanza parlamentare, scalfita solo in minima parte da varie scissioni susseguitesi nel tempo, anche se la popolarità nel Paese reale oggi non è più sovrapponibile al numero di deputati e senatori di cui ancora dispongono i Cinque Stelle. I “ragazzi meravigliosi” di Beppe Grillo, ma anche quest’ultimo ha fatto la sua parte, sono riusciti a dissipare in pochi anni quella marea di consenso conquistata nel 2018. Il grande stravolgimento rivoluzionario, promesso nelle piazze del Vaffa, non si è mai verificato e l’unica misura che sarà ricordata come un’idea autenticamente grillina è il reddito di cittadinanza. Non proprio una intuizione eccezionale, a dire il vero.

Nonostante la veemenza anti-sistema delle loro manifestazioni, i pentastellati si sono rivelati, in realtà, pavidi di fronte alla possibilità di navigare in solitudine e in mare aperto, rivendicando una radicale diversità e una purezza rispetto alle destre e alle sinistre tradizionali. Si sono fatti piacere governi di varia natura per tutta la legislatura, (dall’Esecutivo “sovranista” con Matteo Salvini a quello giallorosso e schiacciato a sinistra con il Partito Democratico, fino ad arrivare alla unità nazionale sotto l’egida di Mario Draghi). Tutto questo pur di scongiurare con una certa costanza sia una coraggiosa traversata del deserto che il ritorno alle urne. Quando si sono resi conto, forse già alla prima e non esaltante prova di Governo, che non avrebbero mai più avuto la fiducia del 30 per cento degli italiani, si sono abbarbicati alle loro poltrone, difendendo a spada tratta la sopravvivenza della legislatura, nella certezza di subire un severo ridimensionamento da un eventuale passaggio elettorale. Del resto, perché scambiare una vacca grassa con una magra?

Si sono incollati ai partiti dell’odiato sistema, quelli che dovevano essere spazzati via da un Vaffa, per “resistere, resistere, resistere” insieme a loro. Il M5S è diventato in poco tempo simile, se non peggiore, alla politica d’antan. Ha assimilato le caratteristiche più deleterie, ovvero l’attaccamento a tutti gli agi offerti dalla Repubblica parlamentare, la disponibilità a scendere a qualsiasi patto, anche il più contraddittorio possibile, e l’assenza allarmante di idee e visioni lungimiranti. Senza però apprendere nulla dell’uso della macchina dello Stato.

L’Italia ha già visto la nascita e il successo di partiti sorti rapidamente dal nulla, per esempio Forza Italia, o cresciuti grazie a un malcontento trasversale, la Lega Nord di Umberto Bossi. Al di là delle evoluzioni o involuzioni recenti sia del partito di Silvio Berlusconi che del Carroccio salviniano, e di ciò che si può pensare di esse, è indubbio che entrambe queste forze politiche, nonostante gli exploit improvvisi con una classe dirigente ancora tutta da costruire, abbiano saputo esprimere, nella loro storia ormai più che ventennale, anche ottimi ministri e validi amministratori locali. Il Movimento Cinque Stelle ha dato invece al Paese ministri come Danilo Toninelli e sindaci, pardon, “sindache” del calibro di Virginia Raggi, e non occorre aggiungere molto altro. Se non sai fare opposizione e nemmeno essere forza di Governo, sei semplicemente inutile!

Adesso, per tornare a darsi un tono e forse per tentare di frenare un declino elettorale sempre più marcato, certificato da tutti i sondaggi, iniziano a distinguersi dal resto della maggioranza di Governo. E lo fanno su uno dei temi più caldi in discussione in questi giorni, ovvero l’aumento delle spese militari sino al 2 per cento del Pil da parte dell’Italia. Tradiscono anzitutto le loro mai abbandonate velleità anti-occidentali. Si parla tanto, anche a ragione, degli imbarazzi di Salvini e Berlusconi circa la loro passata amicizia con Vladimir Putin, ma gli ammiccamenti pentastellati verso varie dittature vengono menzionati molto di meno. Ci sono o ci sono stati rapporti torbidi con il Venezuela di Nicolás Maduro, la Russia putiniana non è mai stata vista in negativo dal M5S, nonostante Luigi Di Maio si atteggi oggi a ministro politicamente corretto, e vi è infine ammirazione, più o meno nascosta, per la Cina comunista. Il presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Rosario Petrocelli, targato Cinque Stelle, non ha avuto problemi nel definirsi pubblicamente filocinese. Fa un po’ accapponare la pelle che una importante commissione di Palazzo Madama sia presieduta da un tizio del genere, ma in fondo Petrocelli è il più onesto della compagnia, perché non si nasconde. Tanti altri suoi colleghi di partito, a cominciare forse dal leader Giuseppe Conte, sono lieti, quando è possibile, di interpretare politiche funzionali agli interessi di Pechino, ma non hanno il coraggio di esternare in modo aperto la loro preferenza internazionale per Xi Jinping. Da premier, Conte si è rivelato come un leader occidentale ben disponibile, forse felice, a farsi “cinesizzare”, dalla cosiddetta Via della Seta alla gestione illiberale della pandemia, ispirata al modus operandi cinese, costituito da ripetuti lockdown e segregazioni autoritarie. Ma guai a rinfacciarglielo.

Non dimentichiamo neppure le lodi espresse qualche anno fa da Grillo nei confronti dell’Iran, (addirittura un modello da seguire a detta del fondatore del Movimento), e qui non c’entra solo il fatto che la moglie dell’ex comico genovese sia proprio originaria del Paese degli ayatollah. Una Italia e un Occidente che non investono nella difesa rappresentano il miglior quadro possibile per tutti i nemici della libertà sparsi nel globo, dal regime di Putin alla Cina e senza scordare il fondamentalismo islamico. Sarebbe paradisiaco un mondo senza armi, ma fino a quando le autocrazie saranno armate fino ai denti, le democrazie non potranno di certo difendersi solo con i fiori o i gessetti colorati. Chi non vuole che l’Italia pensi anche alla propria sicurezza militare, fa il gioco di Vladimir Putin, Xi Jinping e simili, più o meno consapevolmente. Opporsi al minimo sindacale, cioè l’aumento della spesa militare al 2 per cento del Pil, è francamente da irresponsabili, ma, al di là del merito della questione, se i grillini ritengono davvero un abominio una maggiore spesa per la difesa, perché non si ritirano dalla maggioranza di Governo, avendo ancora dei gruppi parlamentari di tutto rispetto? Perché lasciano che Draghi metta anzitutto al sicuro il decreto Ucraina, ponendo la fiducia, e poi si accontentano solo di una promessa di gradualità negli aumenti di spesa?

Insomma, se si crede alle proprie idee, non bisognerebbe essere impauriti da eventuali rischi. Ma si sa, se dovesse cadere il Governo Draghi, il Movimento Cinque Stelle non saprebbe più dove andare, cosa fare e con chi stare.

Aggiornato il 06 aprile 2022 alle ore 09:57