Madama Virginia Raggi, prima cittadina dell’Urbe, non riposa neanche nella calura ferragostana che da sempre induce al dolce far niente le affaticate membra dell’umanità. Ebbene sì, piuttosto che farsi abbracciare dal démone meridiano, la sindaca pentastellata ha deciso, di certo con l’accordo di altre menti sopraffine, di far asfaltare alcune strade cittadine e togliere così i sampietrini dalle stesse. Anche in questa operazione non è la prima, e ricalca le non proprio migliori orme di alcuni suoi predecessori, dimostrando così, ancora una volta se mai ce ne fosse stato bisogno, come l’insipienza umana non sia appannaggio di un gruppo politico o di un’ideologia piuttosto di un’altra, ma appartenga indistintamente a chiunque. Dicevo che evidentemente la Raggi ignora non soltanto la storia del Sampietrino, ma nel contempo quella della città che lei governa.
Ella non sa, immagino, che i blocchetti di leucite – questo è il nome scientifico della roccia eruttiva delle zone vulcaniche laziali che li compone – furono voluti da Papa Sisto V per lastricare tutte le strade principali di Roma, poiché agevolavano il transito dei carri del tempo. La caratteristica principale di questo tipo di pavimentazione stradale, è di non essere cementata, ma soltanto incassata su un letto di sabbia che le conferisce elasticità e capacità di coesione e adattamento al fondo stradale, lascia respirare il terreno, defluire le acque ed è estremamente adattabile. Ora, se è pur vero che il traffico romano dei nostri giorni non sia certo paragonabile a quello del Cinquecento, è altrettanto indubitabile che privare la città di una delle sue caratteristiche estetiche, morfologiche, architettoniche e anche storiche, ci dà la cifra esatta di quali idee alberghino, se albergano beninteso o piuttosto transitano appunto come l’acqua sui sampietrini, nella mente di alcuni amministratori pubblici che, ahinoi, giungono a porre le loro terga sugli scranni capitolini.
Il nefasto ed esecrabile “Piano sampietrini”, vorrebbe dunque “riqualificare” le vie cittadine, ma invece le squalifica riducendole al rango di qualsiasi altro stradone di periferia, di qualsiasi altra periferia priva d’identità e tradizione. La zona di via IV Novembre a poca distanza da piazza Venezia, non lontano dal Colosseo e dai Fori Imperiali, uno dei centri pulsanti di quella Roma che è il cuore del mondo, viene così ulteriormente violata e devastata in nome di una non ben compresa praticità per i veicoli. E la praticità, diceva sempre Oscar Wilde, è l’ultima risorsa di un uomo privo di fantasia.
Quindi non si dirà più, come epigrammò la statua di Pasquino nel Seicento: Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini, ovvero “Ciò che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini”, evidentemente rivolto a papa Urbano VIII Barberini e ai membri della sua famiglia, a causa degli scempi edilizi di cui si resero autori, ma desideriamo ricordare – o forse far sapere alla sindaco e alla sua attenta e minuziosa giunta – che già nel 1462, in quell’età chiamata Rinascimento oggi sulla bocca di troppi che lo nominano senza conoscerlo, Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, emanò una bolla per tutelare i monumenti di Roma dalle continue distruzioni. Lo so, altri tempi, altre carature di figure, altri personaggi la cui statura culturale giganteggia ancora incontrastata dopo tanti secoli, lo so sono un laudator temnporis actis e me ne fregio, lasciando più che volentieri questo “reo tempo” e la sua nequizia nei confronti di tutto ciò che ha un’anima e uno spirito, ai vessilliferi di questo presente di piccole, meschine realtà che svaniranno ineluttabilmente, lasciando – forse ma avrei qualche dubbio – di loro stesse neanche un pessimo ricordo.
Aggiornato il 06 agosto 2020 alle ore 11:31