Il 10 aprile se n’è andato Luciano Pellicani, e per la sparuta pattuglia Lib-lab di casa nostra è stata una grande perdita, perché Pellicani – come acidamente volle sottolineare Eugenio Scalfari all’indomani della pubblicazione sull’Espresso del saggio intitolato “Il vangelo socialista”, del quale il sociologo era stato ben più di un semplice ghostwriter – aveva rivoluzionato la topografia degli schieramenti politici italiani e, di fatto, fondato un grande partito liberal-socialista.
Con lui scegliemmo Proudhon (e non solo, a dire il vero, perché proprio grazie a lui cominciammo a leggere con occhi diversi Russel, Bobbio, Rosselli e così via) anziché Marx. Grazie a lui comprendemmo definitivamente che tra comunismo marxista-leninista e socialismo democratico esisteva una “incompatibilità sostanziale”, perché il socialismo o è democratico, liberale, laico, pluralista e libertario, o non è.
Ma, ai miei occhi, Pellicani aveva una dote che spiccava su tutte le altre: la capacità di portare a sintesi concetti complessi senza banalizzarli. I suoi libri, come i suoi pezzi su Mondoperaio, portavano dritto al nodo della questione, al tempo stesso precludendo ogni comoda via di fuga che non fosse fondata su di un’analisi rigorosa.
Sarà per questo che, da quando ho appreso della sua scomparsa, mi chiedo cosa scriverebbe Pellicani circa il lockdown. Non dubito che ne avrebbe colto, meglio e prima di tutti, i risvolti meno evidenti. Perché, proprio applicando il suo metodo rigoroso, non riesco a non pensare che questa chiusura generalizzata altro non sia, in termini non solo economici, che un costo imposto a tutti per garantire un presunto bene comune; al pari di una tassa, insomma. Ma qual è l’impatto distributivo di questo costo?
Mi pare difficile negare che l’intera questione, così posta, abbia una dimensione di classe. Da questa riflessione nascono inevitabilmente degli interrogativi. Perché questo tema è assente dal dibattito? La sinistra da che parte sta in questo che, a tutti gli effetti, può definirsi, pure, un conflitto di classe? Non c’è forse, in questo tema, la prova che le categorie novecentesche siano definitivamente superate e che la topografia degli schieramenti si sia definitivamente spostata dal confronto destra-sinistra a quello rendita-lavoro? E se così è, dove si devono porre i confini tra rendita e lavoro, che so, tra un ultra-garantito burocrate di Stato e un imprenditore in crisi? E infine, in questo rinnovato scenario, può negarsi che i partiti della sinistra, anche in questa occasione, abbiano scelto di porsi a difesa del deep state e delle sue rendite di posizione?
Interrogativi da far tremare i polsi; chissà Pellicani come avrebbe risposto. Una certezza però l’abbiamo: oggi più di ieri non c’è alternativa al pensiero liberale.
Aggiornato il 15 aprile 2020 alle ore 11:42