La fede inutile

Quando il figlio dell’Uomo tornerà, troverà fede sulla terra? Questa la radicale domanda di Cristo, che i testi evangelici (Luca, 18,8) trasmettono a tutti gli uomini e, in particolare, a coloro che – sacerdoti, vescovi, consacrati, suore, religiosi e religiose – rispondendo ad una personale vocazione, si son dedicati per tutta la vita alla evangelizzazione ed alla testimonianza della fede. A scorgere anche in modo rapido ciò che oggi accade – in questo tempo di pandemia – parrebbe che di fede autentica ne sia rimasto però soltanto qualche brandello, forse irriconoscibile.

Infatti, non è certo la prima volta nella storia che – nel corso di una pericolosa epidemia – le Chiese siano state chiuse e le funzioni religiose sospese: si pensi che al tempo di San Carlo Borromeo, le autorità avevano decretato il divieto delle processioni e delle pie adunanze proprio per arginare la peste che durò fino al 1576. Quale allora la novità? La novità sta nel fatto che mentre San Carlo Borromeo, pur dandosi da fare per primo e in ogni dove allo scopo di escogitare rimedi contro il contagio e prestare assistenza ai sofferenti – perché era ovviamente ben consapevole del pericolo –  protestò vibratamente, accusando le autorità civili di riservare più attenzione alle cose della terra, invece che a quelle di Dio e convincendole perciò ad autorizzare non una ma ben tre processioni, destinate ad impetrare la grazia tanto attesa dal popolo; al contrario, oggi, di fronte alla proibizione delle funzioni religiose, preti, suore e vescovi tacciono, spauriti.

La cosa non sorprende, perché preti, suore e vescovi son pur sempre uomini e, come tutti gli uomini, hanno ragione di temere molto il contagio e peraltro non vogliono certo apparire ad una opinione pubblica allarmata e sospettosa come coloro che, opponendosi alle disposizioni delle autorità civili, finiscano col favorire il propagarsi della epidemia. Tutto questo sta bene e poteva essere largamente preventivato. Molto invece sorprende, per quel che ne so, come nessuna voce di costoro si sia levata, pur nella obbedienza dovuta alle autorità civili, a dichiarare come essi obbediscano sì, ma con una riserva mentale necessaria e soprattutto pubblicamente proclamata: che cioè la fede – e soltanto la fede – mai potrà veicolare il male, facendosi tramite di contagio ma, casomai, potrà salvare dal male e dunque anche dalle epidemie. Insomma, ciò che mi stupisce è che preti, suore e vescovi si siano comportati come qualsiasi altra persona di fronte alla disposizione che proibiva messe e funzioni religiose, accettandola senza avanzare alcuna osservazione, pur teologicamente fondata ed evangelicamente necessaria.

Tanto per capirci – e nell’ottica specifica della fede – come si fa ad ammettere che la distribuzione dell’ostia consacrata dalla mano del sacerdote alle labbra dei fedeli possa aumentare il rischio del contagio? E come si fa, perciò, a proibirla dagli stessi vescovi, prima che dalle autorità civili? Infatti, delle due, l’una. O, nell’ottica puramente mondana, si afferma che si tratta soltanto di un pezzetto di pane che transita dalla mano dell’officiante alla bocca del fedele ed in questo caso si hanno tutte le ragioni per temere il contagio: da qui la proibizione. Oppure, nell’ottica della fede, si vede in quel pezzetto di pane niente meno che il corpo di Cristo, di Dio fatto uomo e che si comunica a tutti e a ciascuno di noi per mezzo del sacerdote ed in questo caso soltanto ipotizzare un contagio attraverso il corpo di Cristo appare ridicolo, se non addirittura blasfemo: da qui la assurdità della proibizione. Si badi. Non mi passa neppure lontanamente per la mente di spronare preti e vescovi alla disobbedienza civile: sarebbe assurdo e controproducente. Tuttavia, affermo che sarebbe stato normale attendersi che qualcuno fra di loro – non tutti, ma almeno qualcuno – pur obbedendo alla proibizione, ne avesse evidenziato pubblicamente – ripeto, pubblicamente – i limiti, ponendosi nell’ottica della fede. Ma così non è stato. Anzi sembrava quasi, in certe occasioni, che i preti avessero paura del contagio ancor più dei laici. Ma che fede è mai questa fede che viene sbandierata dal pulpito durante omelie a volte noiose e di eccessiva durata, quando tutto va bene, prima di sedersi a tavola per il gustoso pranzo domenicale, mentre se le cose vanno meno bene e se addirittura scoppia una pandemia – come quella odierna – viene conservata e chiusa a chiave in una cassetto, come nulla fosse?

Nessuno pretende che i preti facciano come San Giovanni Bosco, il quale, durante una terribile epidemia di colera che imperversava per tutta Europa, invece di svuotare le Chiese, conduceva i suoi ragazzi davanti all’altare e poi ad assistere personalmente i malati, nelle case maleodoranti e nei lazzaretti, assicurando che neppure uno sarebbe stato contagiato: come in effetti fu.

Tuttavia, una fede dimenticata o che non serva se non a condire di belle parole e di severi ammonimenti i sermoni domenicali non merita neppure questo appellativo, perché è una fede inutile, una fede da funzionari e dispensatori del sacro. Anzi, la fede va dichiarata e proclamata – cioè testimoniata – proprio quando le cose non vanno come vorremmo o quando addirittura vanno a rovescio: farlo in altre circostanze è da sepolcri imbiancati. Per questo, si vorrebbe e si spererebbe che una sola voce – una soltanto – fra preti, suore e vescovi si levasse in alto per proclamare a tutti questa semplice verità: che la distribuzione dell’ostia consacrata mai e poi mai potrà favorire alcun contagio e che anzi è destinata ad evitarlo sempre e comunque, perché nell’ostia si nasconde, e al tempo stesso si rende palese, il corpo stesso del Cristo. Ma per ciò dire pubblicamente, occorre un minimo di fede, un minimo che per preti, suore e vescovi, definirei sindacale. Quando il figlio dell’Uomo tornerà, troverà questo minimo sindacale di fede sulla terra?

Aggiornato il 13 marzo 2020 alle ore 13:10