“Spazzacorrotti” e retroattività: la Consulta vuole uccidere il diritto vivente

Uccidere il cosiddetto “diritto vivente”. Quello del “tempus regit actum”. E cioè della legge che cambia secondo le circostanze e con essa la sua interpretazione costituzionale. Non se ne può più alla Consulta - e da tempo - della mentalità contorta e manettara di quei magistrati che lo incarnano e lo predicano, il “diritto vivente”, nell’immaginario italiota da “Mani pulite” in poi.

Per non parlare dei partiti come i Cinque Stelle nati all’ombra di questa welt und schaaung da Germania Est. La “mission impossibile” della Corte costituzionale è virtualmente e praticamente iniziata oggi con il deposito della motivazione della sentenza numero 32 sulla “Spazzacorrotti”, che censura come incostituzionale l’interpretazione retroattiva delle sue norme carcerarie da applicare anche ai funzionari infedeli della Pubblica amministrazione trattandoli da mafiosi. La sentenza era stata già resa nota per sommi capi pochi giorni orsono. E oggi viene esplicitata con una lunga motivazione.

Incostituzionale è, alla lettera, “...l’articolo 1 (comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso.

Inoltre è in contrasto con la Carta dei padri costituenti anche “l’art. 1, (comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale.

Per cui le dichiarazioni del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (“hanno bocciato l’interpretazione non la legge”), sono da considerare attendibili solo a metà. Perché di fatto i grillini gioirono, approvata la legge, al sacrificio sull’ara patibolare del proprio credo del condannato Roberto Formigoni, costretto a farsi svariati mesi di carcere in virtù del peggioramento – mediaticamente suggerito in maniera retroattiva – di una norma che concedeva agli imputati per reati contro la Pubblica amministrazione quei benefici che invece ai mafiosi sono generalmente preclusi a meno che non decidano di collaborare.

La Corte costituzionale oggi con la sentenza di cui è stato relatore il giudice costituzionale Francesco Viganò, presidente Marta Cartabia, dopo tante sentenze prudenti degli scorsi trent’anni, cioè da quando fu approvata la normativa speciale antimafia sull’onda emotiva della strage di Capaci e di quella di via D’Amelio, sembra avere passato un proprio Rubicone garantista.

Facendo partire il fulcro delle motivazioni depositate in data odierna da una premessa che è quasi un promessa per il futuro: “Come anticipato, plurime e convergenti ragioni inducono a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali”.

E questo implicitamente censurando la giurisprudenza costante della Cassazione a sezioni Unite che invece si è nel tempo piegata al principio “di diritto vivente” secondo cui “il fine giustifica i mezzi”.

È la visione “davighiana” della giustizia. Ma non è stato di certo lui a inventarla. Anche se oggi tutti quelli che dicono di parlare in nome di Giovanni Falcone, recitando il mantra dell’“io ero il suo allievo più fedele”, fanno finta di dimenticare con quanto scetticismo l’eroe ammazzato dalla mafia guardasse a questa politica del professionismo antimafia. Anche se non era lui a chiamarlo così.

La Consulta oggi sembra volerla fare finita con questo “diritto vivente” che ci porta a venire condannati in Europa dalla Cedu quasi a settimane alterne per le violazioni dei principi cardine dei diritti umani.

“In primo luogo – dice la Consulta – non è senza significato che, in alcune occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare espressamente l’applicabilità di norme incidenti sul regime di esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti posteriori all’entrata in vigore delle norme medesime”.

Quando? “Ciò – si legge – è avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991, cui si deve l’introduzione dell’articolo 4-bis ordinamento penitenziario, nella sua originaria versione. L’articolo 4, comma 1, di tale decreto legge prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi minimi di espiazione di pena per l’accesso ai benefici penitenziari fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto legge stesso”.

E ancora: “...nel 2002, il legislatore – nell’aggiungere all’elenco di cui all’articolo 4-bis, comma 1, ordinamento penitenziario, i delitti posti in essere per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, nonché i delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen. – ebbe cura di escludere l’applicabilità della modifica normativa ai condannati per tali titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, recante ‘Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario’)”.

Poi però sono arrivati i grillini al Governo al termine di una lunga marcia propagandistica che ha coinvolto tv, giornali nati ad hoc e, beninteso, i social network e chi li usa in maniera professionale come la Casaleggio Associati. La loro propaganda giustizialista assordante ha portato a questa “Spazzacorrotti” che adesso riceve un colpo ben assestato che è quasi un uppercut in divenire.

L’attacco a Bonafede e ai suoi “esperti giuridici” (e/o suggeritori) è palese sin dall’inizio, “la legge n. 3 del 2019 non prevede invece alcuna disposizione transitoria che ne escluda l’applicabilità ai condannati per fatti pregressi. Proprio tale silenzio del legislatore del 2019 ha provocato un diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla sostenibilità costituzionale e convenzionale della conclusione, imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche ai condannati per fatti pregressi. Ciò si è manifestato sia nelle pronunce di merito, di cui si è poc’anzi dato conto (supra, 4.1.3.), che hanno direttamente adottato una soluzione difforme; sia nel grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell’arco di un brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimità costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecita in sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo quel diritto vivente. Nella stessa giurisprudenza di legittimità non mancano, d’altronde, segnali indicativi del medesimo disagio. Una sentenza della sezione sesta penale della Corte di cassazione, in particolare, ha prospettato dubbi di legittimità costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria da parte della disposizione in questa sede censurata, pur ritenendo di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza nel caso di specie.

In pratica, senza una disciplina transitoria queste leggi manifesto come la “Spazzacorrotti” non si potranno più scrivere da ora in poi.

Quanto al merito censurato la questione viene messa così: queste leggi e queste maniere di interpretazione, eufemisticamente chiamate “diritto vivente”, non sono solo contro la nostra Costituzione ma vengono censurate a ogni piè sospinto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo o Cedu che dir si voglia.

Lo schiaffo mortale ai forcaioli del “diritto vivente” è in questa frase che riassume tutta la sentenza: “Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di ‘stato di diritto’. Un concetto, quest’ultimo, che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una ‘legge’ pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare.

Se non si capisce questo, è il corollario implicito, il fascismo o lo stalinismo sono dietro l’angolo. E sarebbe farsesco se la storia mussoliniana si ripetesse la seconda volta per merito o per colpa di un partito fatto notoriamente di “scappati di casa”, La “marcia su Roma” aveva un proprio tragico e tragicomico spessore. Ma un autoritario regime basato su slogan come “intercettateci tutti” e “onestà, onestà!” farebbe ridere i polli.

 

Aggiornato il 26 febbraio 2020 alle ore 17:54