Emilia-Romagna: il bastione sbrecciato e l’inganno del moderatismo

Durante la campagna elettorale, il Pd e i suoi satelliti (pesci azzurri compresi) hanno sostenuto che gli elettori dovevano guardare ai risultati dell’amministrazione locale e non al quadro nazionale né agli scenari ideologici. Ma si trattava di una cortina fumogena per nascondere, da un lato, il fallimentare esperimento del governo giallorosso e, dall’altro lato, la verità del meccanismo del consenso che ha sempre contraddistinto il potere del partito egemone (il Pci e tutte le sue metamorfosi post-89) e che si è retto su grandi collettori ramificati nella società, innervati nelle organizzazioni culturali, sindacali e perfino nei gangli produttivi.

Che da qualche tempo quel meccanismo di raccolta fosse entrato in crisi, lo testimonia l’erosione elettorale del grande partito-chiesa che per oltre mezzo secolo aveva dominato quella regione (e accanto ad essa le regioni del centro-Italia). In Emilia vige infatti un comunismo post-comunista che ha perfettamente tradotto in pratica concreta la teoria gramsciana e leniniana dell’egemonia, portandola dai brutali e cruenti scenari sovietici ai più paciosi ma non meno risoluti orizzonti nostrani del secondo dopoguerra. Una dittatura talmente blanda da essere quasi impercettibile, esercitata con le armi della pressione sociale ed economica (questo è infatti il flusso di lunga durata di oltre mezzo secolo di comunismo in salsa emiliano-romagnola, bonario in apparenza ma ferocissimo in realtà: chi non aveva la tessera era messo ai margini del sistema), e con gli strumenti affilatissimi di una propaganda ideologica che è riuscita a controllare tutti i centri di potere (quelle che Gramsci chiamava le casematte), in modo velato ma spietato, imponendo un marxismo culturale all’italiana.

Ora, nella recente campagna elettorale la sinistra ha spacciato una menzogna (quella del voto all’efficienza dell’amministrazione) che si smonta osservando il voto stesso nella sua qualità anziché nella quantità. Il voto a sinistra non è stato tecnico-amministrativo, ma totalmente ideologico, legato cioè alla bontà dell’amministrazione solo in quanto connesso al sistema di potere capillarmente eretto in settant’anni di dominio politico e di pratica della falsità generalizzata.

Gli analisti politici e soprattutto quelli elettorali studiano i numeri, la loro disposizione territoriale, i flussi e le dinamiche, ma al di là dei numeri c’è, sempre e in qualsiasi circostanza, uno strato di senso che è comprensibile solo a uno sguardo fenomenologico: le cose si mostrano in se stesse solo se ridotte alla loro essenza, e l’essenza del voto dato alla sinistra emiliana è l’effetto dell’azione onnipervasiva dell’ideologia comunista, sia pure adattata alla società contemporanea. 

Cosa mostra dunque questo voto? Nelle circoscrizioni di Ferrara, Piacenza, Rimini e Parma ha vinto ampiamente Lucia Borgonzoni. Ferrara e Piacenza sono amministrate dal centrodestra (a trazione leghista), e quindi se il voto è stato dato all’amministrazione locale come sostiene la tesi piddina, allora vorrebbe dire che in quelle circoscrizioni il centrodestra amministra bene, tanto da meritarsi il consenso, e in ogni caso meglio di quanto amministrava la sinistra, che in quei territori ha dovuto cedere il passo già da qualche anno.

Nel complesso, la sinistra dell’ex-Pci ha vinto, ma la sua forza è, paradossalmente, in declino, soprattutto perché è stato svelato il retropalco ideologico che ne ha sempre accompagnato l’azione, anche ora che si nasconde dietro al paravento amministrativo tecnocratico. La grande roccaforte rossa non è stata espugnata, ma la sua rete di potere è stata incrinata, nella struttura geografica e in quella sociale, produttiva e culturale. La regione rossa è, già da alcuni anni, da quando cioè la Lega ha valicato il Rubicone, lacerata da isole anticomuniste sempre più grandi e più solide, e in crescita. Una diga si sgretola a partire da piccole falle, e oggi il fortilizio emiliano è forato in molte parti. Ci vorrà un po’ più di tempo del previsto, ma quando un’ideologia viene smascherata, è destinata inevitabilmente a crollare, portando con sé il sistema che aveva prodotto. E a questo svelamento siamo arrivati proprio quando il centrodestra è stato risoluto ed esplicito, quando ha rifiutato le ipocrisie politichesi e il buonismo cattocomunista, abbandonando i sotterfugi e gli inganni di sedicenti moderati.

Con ciò distinguiamo subito e definitivamente gli pseudomoderati, cinici per ideologia o semplicemente per calcolo, da coloro che hanno il senso della misura e del rispetto, che non valicano i limiti della democrazia pur non edulcorando le loro proposte politiche, che rispettano le regole della convivenza civile difendendo però senza esitazioni la sovranità nazionale, che proteggono in modo assoluto la libertà d’espressione degli avversari senza smettere di denunciare la violenza ideologica del neomarxismo e di combattere le nuove forme del comunismo.

La seconda menzogna messa in circolazione dice che Matteo Salvini avrebbe sbagliato strategia, impostando la campagna elettorale su un registro molto urlato e altamente conflittuale. Molti commentatori, tra i quali qualche spettatore o forse anche speculatore politico interessato (non ovviamente Fratelli d’Italia, leali, coerenti e dai modi assolutamente determinati e intransigenti), sostengono che Salvini non doveva condurre una campagna elettorale così polarizzata, perfino radicalizzata, perché, questa la tesi, in questo modo si sarebbero spaventati i moderati. Facile, troppo facile argomentazione, che suona falsa e nasconde retropensieri ambigui, anche sleali. Infatti, quando i problemi sono gravi, il moderatismo è un paravento per non affrontarli. E dunque, quando gli avversari sono estremisti ideologici ammantati da tecnici dell’amministrazione pubblica, bisogna affrontarli senza cadere nell’estremismo ma con una inflessibile forza dialettica, nelle forme e nei contenuti. La sinistra, in tutte le sue componenti, ha concepito questo turno elettorale come una battaglia finale, una questione di vita o di morte, e quindi si è compattata, ha alzato il tiro e coperto di contumelie gli avversari, bersagliando soprattutto Salvini, che di questi ultimi è il leader. In tale contesto, coloro che predicano di «abbassare i toni» sono i corifei della sinistra e gli opportunisti che si sono infiltrati a destra: entrambi lavorano contro il centrodestra. 

Nonostante la mancata vittoria, Salvini e Giorgia Meloni non hanno sbagliato strategia, perché la loro azione ha inciso in profondità la crosta ideologica del neo-comunismo emiliano, come era riuscita a fare trionfalmente pochi mesi fa in Umbria (il voto in Calabria ha una storia molto diversa, ma anche in quel caso la determinazione e la fermezza hanno pagato in termini di consenso, portando Jole Santelli a un risultato straordinario). Modificare in senso moderatistico, con un’autoforzatura e con un cambio di rotta rispetto alla linea della chiarezza tenuta da entrambi, pur con sfumature diverse, in tutti questi anni, sarebbe l’inizio di un regresso politico che implicherebbe anche un ridimensionamento numerico, con le ovvie conseguenze negative sulla possibilità di avere la maggioranza nelle urne.

La strumentalizzazione del richiamo alla moderazione è qui palese, per evidenti motivi: erodere consensi a partiti che non scendono a compromessi e che sono quindi non controllabili dai vari poteri che vogliono continuare a gestire l’Italia. Presidenti di regione come Luca Zaia, Marco Marsilio o Massimiliano Fedriga, che il popolo di centrodestra apprezza e sostiene, sarebbero estremisti? Domanda sciocca e inutile, perché estranea alla logica che guida la loro azione politico-istituzionale, a quell’antica logica politica della parresia, del dire la verità, del parlare chiaro senza rinunciare ai princìpi e chiamando le cose con il loro nome, senza infingimenti e quindi, spesso, anche con durezza. 

Ricorrere, per l’ennesima volta, alla figura piuttosto misteriosa dei «moderati» significa retrocedere davanti ai problemi, sottomettersi alla dittatura del politicamente corretto, accomodarsi nelle convenienze, accettare gli inciuci. Forse il mantello moderato potrà salvare dal naufragio qualche personaggio o qualche gruppetto politico oggi nelle secche, consentendogli di racimolare quel mezzo punto percentuale utile per farsi eleggere, ma sicuramente avrà come esito quello di riconsegnare il Paese alla sinistra, a quel centrosinistra che ha, oggettivamente e incontrovertibilmente, portato l’Italia allo sfacelo. 

Chi sarebbero i moderati? I moderati non sono una categoria politica o culturale; certo esprimono un atteggiamento sociale e psicologico da rispettare e salvaguardare, alle cui esigenze bisogna dare ascolto e risposta, ma senza trasformarli in un pretesto per additare con lo stigma dell’estremista chi (Salvini o Giorgia Meloni che sia) procede senza ambiguità, senza tatticismi o mezzucci retorico-sofistici. Ed è proprio questo utilizzo dei moderati, ciò che indigna. Questo uso strumentale del termine moderatismo produce un effetto di ripugnanza anche perché fa torto alla buona volontà e alla qualità d’animo di coloro che sono autenticamente moderati ovvero prudenti e rispettosi.

Invece, i sedicenti politici moderati sono in realtà trasformisti che, per esempio, dopo aver sostenuto i governi di Letta e Renzi sono passati con Forza Italia (e magari oggi riescono anche a farsi eleggere, al consiglio regionale o in qualsiasi altro organo), transumanti politici che intorbidano le liste disorientando gli elettori di centrodestra.

Il popolo di centrodestra ovvero di quella nuova destra liberalconservatrice e antitotalitaria che oggi conta in Italia sul consenso di oltre il 40 per cento degli elettori non vuole ricadere nelle grinfie, ma molto moderate, dei comitati d’affari proliferati proprio captando la buona fede di persone, loro sì autenticamente moderate, miti, per indole e per abitudine.

Dall’esperienza di questi ultimi anni una cosa è chiara: il popolo di centrodestra rifiuta le ambiguità, le fumosità e gli opportunismi dei politici sedicenti moderati, perché ha capito che il «moderatismo» è una maschera per nascondere l’incapacità, l’inefficienza e forse anche la connivenza con il nemico, cioè con la sinistra. La campagna d’Emilia insegna che le ramificazioni ideologiche e sociali della sinistra (post)-comunista non si sconfiggono con melliflui giochi di parole, ma con l’affermazione della verità, che è sempre clamorosa.

I problemi sul tavolo italiano (sia nazionale sia locale) sono immutati, sempre pesantissimi e, anzi, aggravati da un governo con tendenze dittatoriali camuffate da manovre stile «grande fratello», nelle quali affiorano un livore e una cattiveria nei confronti dell’avversario raramente riscontrabili nella pur virulenta lotta politica del secondo Novecento. Questi problemi non possono quindi essere aggrediti con tatticismi morotei e con un linguaggio che il popolo italiano respinge in quanto espressione di quella politica che, in nome del popolo, ha sempre schiacciato i cittadini, comprimendone le libertà e negandone l’identità, impedendogli di esprimersi. Ora Salvini e Meloni, come aveva iniziato a fare il Berlusconi degli anni Novanta, hanno sciolto la voce di quel popolo, e non ci si può aspettare che sia un sussurro, no, è una voce possente che reclama verità, libertà e identità.  

 

Aggiornato il 29 gennaio 2020 alle ore 18:05