Il partito della fuffa

Per quel che mi riguarda, ritengo che soprattutto la politicaccia italiana avrebbe bisogno di leader ragionevoli dotati di coraggio e lungimiranza, in grado di affrontare in modo strategico le principali problematiche del Paese, pagandone se necessario un iniziale prezzo in termini di consenso. Tutto ciò per poi ottenere quella necessaria credibilità per governare un sistema, ahinoi, sempre più devastato.

In tal senso abbiamo in Nicola Zingaretti, il quale non è certo l’unico in questa valle di lacrime, l’esatto opposto di un simile paradigma. Almeno a sentire le sue altisonanti dichiarazioni riportate dal quotidiano “la Repubblica”, nell’ambito di un lungo colloquio con il segretario dem.

In estrema sintesi, Zingaretti ha annunciato che dopo le elezioni regionali in Emilia-Romagna cambierà tutto fino all’ultimo bottone, così come declamava il cantore della rivoluzione bolscevica, Vladimir Majakòvskij: rifonderà il suo partito, nato per la cronaca appena 13 anni fa, convocando un congresso ad hoc.

E non sarà un “nuovo partito, così come ha tenuto a precisare, ma un “partito nuovo”. Ovvero un classico gioco di parole per incantare i gonzi e per sottolineare che si realizzerà un gattopardesco cambiamento di facciata stile Bolognina, con il fine non dichiarato di abbindolare il maggior numero di creduloni senza tuttavia proporre, almeno da quel che si è capito, qualcosa di diverso rispetto ad una classica fuffa di sinistra. Una fuffa che, sempre citando il pensiero di Zingaretti, apre per la milionesima volta il suo partito alla società civile, alle sardine e agli eserciti di gretini in servizio attivo permanente. Una ennesima apertura verso la società, la cui sola enunciazione – lo ammetto – mi fa venire l’orticaria, alla quale non poteva poi legarsi un impegno a rimettere al centro la persona, particolarmente quella che va a votare, ci permettiamo di sottolineare.

D’altro canto, sono quasi cinquant’anni che da quelle sponde politiche si annunciano strappi, rivoluzioni copernicane, vocazioni maggioritarie ed altre amenità simili, senza che sul piano dei contenuti più concreti si sia fatta una accettabile chiarezza programmatica, tale almeno da essere compresa dal cittadino medio.

In questo senso, proprio in ragione della presenza del Partito Democratico in un Governo privo di alcuna direzione e che ha colpevolmente rimandato la risoluzione di alcuni dossier assai spinosi, soprattutto sul piano fiscale, anziché cambiare nome e parlare dei massimi sistemi, forse un serio dibattito interno finalizzato a prendere finalmente una posizione netta su quanto resta da fare – praticamente quasi tutto – per tentare di rimettere in carreggiata il Paese potrebbe deporre assai meglio presso l’opinione pubblica. Senz’altro di più rispetto al ripresentarsi dietro il ridicolo paravento di “epocale” cambiamento di nome. A tal proposito ci si chiede quanto possa entusiasmare un Partito Democratico che diventa “I Democratici”. Se non altro chi all’interno del Pd si batteva per un partito plurale è accontentato.

Aggiornato il 15 gennaio 2020 alle ore 11:06