4-4-Renzi

Coltivo, da sempre, due passionacce: la politica ed il calcio. Forse per questo Matteo Renzi mi ha sempre ricordato Zdeněk Zeman.

Amato o odiato, l’allenatore boemo è stato un uomo che divideva. Ma, soprattutto, il ceco si è distinto per l’immutabile sistema di gioco: Licata o Roma, quarta serie o Champions League, le sue squadre sono sempre scese in campo con lo stesso schema.

Pure Renzi non fa differenza, che sia il 5 per cento di oggi o il 40 per cento delle Europee del 2014, lui usa il suo piccolo o grande consenso come testa d’ariete per aggredire il nemico, che immancabilmente identifica nel soggetto politico a lui al momento più vicino.

Per Zeman, come per Renzi, si tratta di sistemi di gioco dispendiosi e che fanno rischiare contropiedi sanguinosi. Il boemo attaccava anche quando la logica avrebbe consigliato di difendersi. Renzi, dalla sua, ha il costante bisogno di una “ribalta”, purché sia e a qualunque costo; pace se tocca smentire se stessi a giorni alterni (il balletto sulla chiusura dell’Ilva, da ultimo, ma la serie delle giravolte è lunghissima dai tempi in cui era soltanto l’oscuro presidente della Provincia di Firenze, sebbene il governo agostano con i già odiati grillini resti il suo capolavoro indiscusso). L’importante è che se ne parli.

In verità, fra i due persistono, tuttavia, due notevoli differenze. Zeman non ha vinto molto, anzi niente. Renzi, al contrario, è stato premier e soprattutto dominus assoluto del Partito Democratico (proprio per questo la persistente retorica dei “nemici interni” strappa più di un sorriso al di fuori della cerchia dei fedelissimi).

Soprattutto, tra i due esiste una differenza grande almeno quanto la distanza tra Praga e Rignano sull’Arno. Il boemo, alla ricerca continua, quanto romantica, di “Zemanlandia”, sorta di Zora calviniana, è diventato un’icona pop. Renzi, con il suo doroteismo 2.0, rischia di diventare il nuovo Remo Gaspari, ché Gissi rispetto alla capitale ceca è dietro l’angolo.

Aggiornato il 06 novembre 2019 alle ore 09:35