Cinque Stelle: anatomia di una sconfitta

Dopo la tranvata umbra i Cinque stelle provano a elaborare il lutto. Ma la prendono dal verso sbagliato. Il bersaglio su cui si sta concentrando il fuoco dello scontento è Luigi Di Maio. D’altro canto, era inevitabile che ciò accadesse. C’è un condizionamento ancestrale che ha condizionato le plebi di tutti i tempi, vissute a tutte le latitudini: idolatrare il capo quando ha il vento in poppa e linciarlo quando diventa debole e sconfitto. È dunque normale che ce l’abbiano con lui che nell’ultimo anno e mezzo è stato, a torto o a ragione, l’alfa e l’omega del Movimento. Che si è fatto in quattro, col governo giallo-blu, per ricoprire un numero d’incarichi governativi e di partito che non ha conosciuto precedenti nella storia della Repubblica. Tuttavia, il fatto che Luigi Di Maio sia il target perfetto non fa di lui il solo colpevole del disastro pentastellato.

Perché non mettere in discussione, per primo, il padre-padrone e garante del Movimento, il comico Beppe Grillo? Non è stato forse lui a scagliare il Movimento tra le braccia del Partito democratico? Bisogna andare indietro con lo sguardo per inquadrare le tappe che hanno portato il Cinque stelle, nel volgere di qualche mese, da movimento di lotta anti-establishment, nemico giurato dell’Europa dei poteri forti e dei banchieri, a trasformarsi in un partitino d’apparato al servizio proprio dei medesimi odiati poteri. Nell’anno trascorso dalla vittoria a valanga alle Politiche del 2018 i grillini hanno scoperto il valore aggiunto dell’opportunismo in politica.

L’hanno praticato ma ne hanno abusato, soprattutto perché l’hanno utilizzato come surrogato di una manifesta inconsistenza di metodo e di argomenti nel progettare una visione di Paese, cioè a concepire una pars construens dopo aver impersonato la pars destruens di un sistema politico. Ma anche per fare gli sfasciacarrozze ci vuole criterio e una buona dose di preparazione nella conoscenza di ciò che si vuole demolire. In assenza, si rischia di restare risucchiati dall’oggetto della propria azione distruttiva. Che è ciò che è capitato ai Cinque stelle. Sono approdati in Europa con la convinzione di aprire, sulla falsariga del Parlamento italiano, le istituzioni comunitarie come una scatoletta di tonno. Una pia, fanciullesca illusione che si è presto infranta contro il muro della realtà. A quel punto, non potendo fare la rivoluzione i grillini si sono acconciati a fare i mercenari: farsi pagare dall’establishment in cambio del tradimento delle proprie parole d’ordine.

Non è stata considerata abbastanza l’enormità della giravolta grillina nel votare alla presidenza della Commissione europea la tedesca Ursula Von der Leyen, cioè l’icona di quei poteri continentali giudicati nemici dei popoli europei. La loro ingenuità li ha spinti a pensare che gli italiani non si sarebbero accorti dell’inversione di marcia da ritiro della patente. Ora, la domanda è: Beppe Grillo è stato tenuto fuori dal cambio di strategia? A valutare le sue uscite pubbliche e l’apprezzamento mostrato per l’avvocato Giuseppe Conte che di questa strategia mercenaria può esser considerato il dominus e lo spirito guida, la risposta non può che essere negativa. Beppe Grillo ha approvato e ratificato il cambio di linea, probabilmente a prescindere da ciò che pensasse il capo politico Luigi Di Maio.

Tutto quello che è accaduto dopo, ad esempio l’inevitabile rottura del patto con la Lega, non è la causa ma la conseguenza dell’inversione di rotta. Ha senso prendersela solo con il mediocre Di Maio? Lo ha se lo scopo è quello di individuare un capro espiatorio sul quale scaricare tutte le colpe occultando quelle dei veri manovratori del Movimento. Tutta la classe dirigente grillina ha commesso un gigantesco errore di sottovalutazione del sentimento dell’elettorato italiano. Essa non ha compreso che allo sbandierato valore della trasparenza, in auge negli anni Novanta del secolo scorso, è subentrata nel sentimento profondo degli italiani l’esigenza di domandare coerenza alla categoria del politico. Si sono chiesti i grillini il perché del successo a valanga di Matteo Salvini?

L’eloquio del “Capitano” non è accattivante e spigliato come quello del suo omonimo fiorentino, le sue espressioni a volte sono urticanti, ruvide, le sue idee possono apparire estremiste, eppure la gente lo ama. Perché? Semplice! Egli trasmette l’immagine di un politico rude ma schietto, di uno che mantiene la parola se promette. Che è esattamente ciò che desiderano gli elettori da un uomo politico. I grillini, al contrario, saltabeccando da una parte all’altra del campo delle ideologie, stazionando a sbafo nel terreno franoso della post modernità, si sono rivelati inaffidabili. Perciò perdono voti come un rubinetto rotto perde acqua. Ma l’incapacità di aggiustare il rubinetto, cioè di svolgere un’analisi seria e compiuta della condizione odierna del Movimento, spinge i suoi dirigenti a straparlare, segno che la bussola è smarrita.

Alcuni di loro in queste ore invocano il ritorno in prima linea di Alessandro Di Battista. Se fosse vero, la toppa sarebbe peggiore del buco. Come si può pensare di richiamare in servizio il capopopolo pro-Maduro, il sandinista per caso, quello che urla invettive contro i nemici da palchi improvvisati, e talvolta anche sbagliati, e contemporaneamente restare al Governo con il Partito democratico, e con Matteo Renzi? Cosa dovrebbe raccontare “l’eroe dei due mondi” Di Battista alla gente? Quanto fa schifo il Pd e quanto sono corrotti i suoi vertici salvo a starci insieme nella stanza dei bottoni e a farci patti di spartizione del potere? Non è bastato il capolavoro umbro? Merito dei grillini se è stato scoperchiato il verminaio della sanità in quella regione, merito loro se un’intera classe dirigente “dem” è stata spazzata via per la mala gestione messa sotto accusa dai magistrati. Ma quando c’è stato da raccogliere i frutti del lavoro di denuncia, il Movimento che fa? Si allea con il corrotto. E non solo. Sceglie come candidato alla presidenza un tale che anche il rosone della Basilica di San Benedetto a Norcia sa essere stato legato a Forza Italia.

L’aver comunque ottenuto ieri l’altro 30mila e passa voti è pur sempre un miracolo nelle condizioni date. Come se non fosse bastata l’Umbria, l’idea adesso è di lanciare in strada Di Battista perché ricominci con le sue prediche al vento. Se si vuole giungere rapidamente sotto quota 5 per cento, si accomodino pure. Di Battista è l’uomo giusto al posto giusto a gridare “onestà-onestà” nel mentre da Washington e dalla city di Londra giungono notizie sulle prodezze affaristiche del premier-avvocato di se stesso. Torni pure il Simon Bolivar de noantri sotto le finestre del cavaliere ad Arcore a contestargli il conflitto d’interessi mentre tribunali e commissioni d’inchiesta vengono intasati dai fatidici “pareri” offerti a lobbisti e affaristi di tutte le risme dall’avvocato-premier Giuseppe Conte.

Di Battista rischia di essere spernacchiato in pubblica piazza. I Cinque stelle se davvero volessero comprendere le ragioni della sconfitta dovrebbero sforzarsi di capire cosa sono stati finora e cosa potrebbero essere per il futuro. Ogni altra strada tentata per aggirare la domanda capitale li porterà irrimediabilmente a sbattere. Se vogliono sapere come si fa a sparire in breve tempo, studino la storia, e la parabola, del “Fronte dell’Uomo qualunque” di Guglielmo Giannini. Potrebbe rivelarsi una lettura molto istruttiva.

Aggiornato il 29 ottobre 2019 alle ore 11:13