Turchia, Libia e crisi migratoria: il gioco italiano delle tre carte

C’è la crisi turco-siriana. Ci sono le bombe e le vittime curde. C’è la paura per una guerra che prosegue un’altra guerra in un tempo infinito. E poi ci sono le minacce dei prepotenti. Tra queste la più efficace di tutte è l’arma dell’immigrazione. Il leader turco Recep Tayyip Erdogan, al solo paventarsi di una flebile reazione occidentale all’aggressione ai curdi in terra siriana, ha sventolato sotto il naso dei titubanti leader europei la bomba dei milioni di profughi oggi trattenuti in Turchia da lasciare liberi di sciamare per l’Europa orientale, fino al cuore pulsante del Vecchio Continente. La guerra chiama la forza. Soccombe chi non la possiede o chi, crogiolandosi per anni in un’assurda pretesa di autoreferenzialità, non ha più il coraggio di essere concludente dopo aver fatto la voce grossa. Sia la cancelliera Angela Merkel, sia il presidente Emmanuel Macron hanno intimato a Erdogan di fermare l’assalto alle postazioni curde oltre confine. Risultato: sono stati ignorati. La controreplica in ordine sparso (non c’è accordo unanime in sede Ue) è stata semplicemente ridicola: l’immediato embargo delle forniture militari alla Turchia. E a cosa serve un’iniziativa del genere? A nulla, visto che varrà per i futuri contratti mentre i depositi del Paese del Vicino Oriente, membro effettivo dell’Alleanza Atlantica e detentore del secondo esercito più potente della Nato, al momento traboccano di armi.

I Grandi d’Europa sparano a salve: minacciano ma con moderazione. La preoccupazione che Erdogan concretizzi la sua minaccia consentendo, dopo aver intascato miliardi di euro dalla Ue per gestire la crisi dei profughi dalla Siria, che un’onda migratoria senza precedenti si abbatta sull’Europa, li paralizza. Ma il capo turco non ha solo l’arma dei migranti a disposizione. C’è la Libia che può funzionare da innesco di una reazione a catena tale da infiammare l’intero quadrante mediterraneo. La Turchia è il principale sponsor del premier tripolino Fayez al-Sarraj nella guerra civile che lo contrappone al ras della Cirenaica e fantoccio dei francesi, il generale Khalifa Haftar. Una pressione eccessiva di Macron sulla crisi curdo-siriana potrebbe spingere l’uomo forte di Ankara a rompere gli indugi sul fronte libico portando la guerra alle porte di casa nostra. E l’Italia? Si dimena. Il nostro ministro degli Esteri si è catapultato in Lussemburgo per dire ai colleghi degli altri Stati Ue che la vendita di armi alla Turchia va fermata. E per questa storica presa di posizione il ministro Luigi Di Maio spreca i denari del biglietto del volo aereo?

Il quadro è quello di un Esecutivo italiano che anche su questo scivoloso terreno si presenta in Europa con il cappello in mano. Non è un insulto gratuito ai giallo-fucsia. Basta leggere la lunare intervista rilasciata dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese al Corriere della Sera ieri l’altro. Preso atto del sostanziale fallimento dell’accordo siglato a Malta nelle scorse settimane, la ministra tenta una furbata da gioco delle tre carte per infilare, nel contesto di crisi generale, il problema degli sbarchi di clandestini in Italia. Sentenzia la ministra: “L’intensificazione dei flussi migratori che stanno mettendo in crisi i Paesi della frontiera orientale richiede un approccio europeo solidale: non possono essere lasciati soli gli Stati più esposti”. Come a dire: dovendo rimediare al disastro a Oriente mettiamoci dentro anche il problema della rotta libica e transeat. Se non si trattasse di una signora che nella vita professionale è stata una servitrice dello Stato ma fossimo al cospetto di una politicante illetterata le chiederemmo: scusi ministro, ci fa o ci è? Davvero pensa di fregare i partner europei intrufolandosi nella gestione della crisi con la Turchia? I governi degli Stati Ue non sanno più come spiegarlo: sugli aventi diritto d’asilo un ragionamento per dare una mano all’Italia si può imbastire ma sulla politica dei porti aperti e dei flussi incontrollati di migranti economici, quindi illegali, le porte dell’Europa restano sbarrate ora e sempre. Dicono nella capitali dell’Ue: l’Italia vuole accogliere tutti? È una sua scelta, ma non può chiederci di condividerla. E allora la Turchia, il cedimento degli argini a Est? È un’altra storia.

Probabilmente non vi sarà alcun esodo biblico perché l’Europa non oserà alzare un dito per sfidare l’autocrate di Ankara. Assisterà inerme al massacro dei curdi, sperando che qualcun altro, lo stesso Donald Trump o Vladimir Putin, tolga la castagna curda dal fuoco del conflitto. Diversamente, verrà autorizzata qualche fiaccolata in memoria delle vittime e l’operoso Parlamento europeo, che ancora non si capisce bene a cosa serva, si prodigherà per deliberare l’istituzione di una giornata commemorativa delle vittime curde dell’aggressione turca. Posto naturalmente che Erdogan lo permetta. Già, perché il dittatore islamico è convinto di essere nel giusto a sterminare i curdi e visto che è un tipo assai permaloso non gli sta bene che i Paesi europei lo critichino e diano spazio e attenzione alle sue vittime. I massacratori sono fatti così, non amano essere contraddetti.

Morale della favola: scordiamoci che l’Europa ci prenda in considerazione sulla questione dei migranti. Dobbiamo cavarcela da soli. L’altra notte a Lampedusa sono sbarcate 200 persone mentre si annuncia l’arrivo della nave delle Ong Sos Mediterranee e Medici senza frontiere, Ocean Viking, con un carico di 176 immigrati raccolti in acque libiche. Tripoli ha offerto all’imbarcazione un approdo sicuro. Com’era scontato, il comandante della nave ha rifiutato l’invito e ha chiesto a Malta e all’Italia di autorizzare lo sbarco del suo carico umano. A Lampedusa l’hotspot è pieno. Cominciano ad esserci problemi di redistribuzione degli immigrati accolti. Dopo la parentesi salviniana al Viminale siamo di nuovo da capo a dodici con il variegato mondo multiculturalista che festeggia per la ritrovata attitudine dell’Italia a farsi male da sola spalancando le porte all’universo mondo. E la ministra, specchio dell’inconsistenza di questo Governo giallo-fucsia, cosa fa? Riempie di nulla la sua prima intervista al più letto quotidiano italiano. Ci si consenta di esprimere sincera vicinanza alla direzione e alla proprietà del “Corsera” per lo spreco di buone cinque colonne di terza con box di richiamo a fondo pagina per dare voce a un ministro che non aveva niente da dire se non promettere di fare del proprio meglio per non sfigurare. Il guaio è che non è il primo caso e non sarà l’ultimo a dare plastica dimostrazione della crisi di proposta di cui soffre l’impostura penta-demo-renziana. Citofonare Luigi Di Maio, Farnesina, per ragguagli.

Aggiornato il 16 ottobre 2019 alle ore 10:47