Centrodestra, il mestiere dell’opposizione

La fiducia concessa dal Senato al Conte bis, sebbene scontata, non deve aver lasciato soddisfatti i vertici pentastellati e dem. Alla conta finale i favorevoli sono stati 169, i contrari 133, gli astenuti 5. Solo 8 in più rispetto alla maggioranza assoluta. Non sono un’enormità, considerando il fatto che a votare per il sì al governo giallo-fucsia sono stati anche 3 senatori a vita. Non che le regole non lo consentano, ma un governo che nasce con il contributo decisivo dei senatori a vita per definizione non gode di buona salute.

A minare alle fondamenta il Conte bis vi sono due astensioni piuttosto urticanti, delle cinque conteggiate. Si tratta dei senatori Gianluigi Paragone dei cinque stelle e Matteo Ricucci del Partito democratico. Più del voto in sé ciò che ha fatto assai male all’accrocco Pd-Cinque stelle sono state le dichiarazioni con le quali i due senatori hanno argomentato il proprio dissenso rispetto all’indicazione ricevuta dai gruppi parlamentari d’appartenenza.  Ricucci e Paragone hanno sviluppato ragionamenti che, seppure fondati su argomenti opposti, sono speculari. Entrambi hanno accusato i rispettivi partiti di tradimento dei valori costitutivi e programmatici presentati agli elettori in occasione delle elezioni politiche.

La domanda sottesa ai due interventi è: come si fa ad accordarsi con chi era giudicato un nemico irriducibile fino al giorno prima? Un interrogativo che tormenterà le coscienze dei vertici dei due partiti partner per parecchio tempo. Conseguenza immediata: i due discorsi si sono trasformati in altrettanti cunei conficcati nel cuore dell’alleanza anomala giallo-fucsia. Creata la falla, la fenditura non può che allargarsi. Molto si è vociferato sui mal di pancia che avrebbero colpito non pochi parlamentari grillini e dem.

Il malessere taciuto oggi troverebbe sfogo concreto domani, grazie alla presenza ostile di Ricucci e Paragone che potrebbe funzionare da catalizzatrice dello scontento. A differenza di Gianluigi Paragone, il quale ha dichiarato di volere rimanere nel Movimento purché gli sia consentita libertà di espressione, Matteo Ricucci lascia il Partito democratico per costruire un’area liberal-europeista insieme a Carlo Calenda, con l’obiettivo di porsi all’opposizione dell’odierno inciucio dem-pentastellati. Il progetto potrebbe beneficiare dell’apporto della senatrice Emma Bonino, anima di +Europa, che ieri l’altro ha dato voto negativo al Conte bis.

Inoltre, in queste ore si è aperta tra i pentastellati la caccia alle poltrone dei sottosegretari. Valutando il rapporto tra domanda e offerta non saranno pochi quelli lasciati a bocca asciutta. E, si sa, quando si resta delusi si diventa rancorosi e ci si lascia prendere da insani propositi di vendetta. I nove voti di scarto in favore della maggioranza, se in condizioni ottimali sono un margine ampio di sicurezza per la tenuta del governo, allo stato dei fatti sono un filo steso sull’abisso. Tutto questo può aiutare a smuovere la scena, ma non a fornire soluzioni alternative. A ciò deve pensare l’odierna opposizione. Come? Di certo non adagiandosi sulla riva del fiume con la busta di popcorn lasciata da Matteo Renzi, in attesa che il destino si compia.

C’è da fare un lavoro immenso tra la gente, tenendo sempre calda la piazza perché faccia pressione costante sul governo, e per caduta, sui rapporti tra partner di maggioranza. C’è poi da fare una battaglia parlamentare senza quartiere ai penta-democratici, mediante l’opposizione dura a tutti i provvedimenti che devono essere convertiti in legge dalle Camere. In proposito, rispolverare la formula del “Vietnam parlamentare” non sarebbe affatto una cattiva idea.

Tuttavia, non basta applicare il modulo del “catenaccio”, bisogna elaborare anche gli schemi d’attacco. Puntare sulle palmari contraddizioni esistenti tra i cinque stelle e i dem è la strada giusta. Lo strumento è la mozione parlamentare che impegna il governo. Ne vedremmo delle belle se, con devastante regolarità, il centrodestra presentasse alla Camera e al Senato mozioni per impegnare il governo a fare la Tav Torino-Lione, la Gronda di Genova, e in generale tutte le opere pubbliche che i grillini hanno bloccato, insieme ad altri provvedimenti che attengono alla protezione delle frontiere e a misure economiche sulle quali i partner di governo non hanno trovato la sintesi.

Ogni volta la maggioranza rischierebbe la spaccatura. Si immagini l’imbarazzo dei dem a dover scegliere se votare secondo i propri convincimenti con la certezza di porsi contro l’alleato di governo oppure adeguarsi per disciplina di maggioranza alle posizioni del partner così rinnegando le proprie. Si chiama guerra di logoramento e può far male quanto se non più di una guerra di trincea. Si dirà, Giuseppe Conte ha invocato la mitezza e Nicola Zingaretti la fine dell’odio. Troppo comodo inalberare la bandiera della pace dopo che con una congiura di palazzo è stata annientata la volontà del popolo italiano. Se si colpisce a tradimento è naturale attendersi la rappresaglia.

L’auspicio adesso è che il centrodestra ritrovi unanimemente la voglia di combattere. Era Mao Zedong che diceva: “La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità”. Sacrosanto. Provate a sostituire la parola “rivoluzione” con “opposizione”, vedrete che suona bene ugualmente.

Aggiornato il 12 settembre 2019 alle ore 16:49