Se l’unità nazionale diventa un feticcio

Alcune regioni del nord hanno chiesto da tempo maggiore autonomia. Niente di eversivo, tutto secondo Costituzione (art. 116). La Campania si sta accodando, ma per mettere sabbia nel motore.

Il Movimento 5 Stelle storce il naso e frena la Lega, strizzando l’occhio alle regioni del sud che di autonomia non vogliono sentir parlare nella speranza di poter continuare ad abbeverarsi nel grande catino dell’assistenzialismo e dei trasferimenti di denaro dallo Stato centrale.

Stringi stringi, il cuore della questione si riduce alla libertà fiscale delle regioni per finanziare le materie loro attribuite, dalla sanità all’istruzione, dai beni culturali all’ambiente: quante tasse lasciare sui loro territori e quali poteri riservare loro per imbastire una politica tributaria autonoma, svincolata dal Governo romano?

Tentare di accantonare le richieste di autonomia o rinviarle alle calende greche significa non conoscere la realtà del Paese: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che per prime hanno avviato la procedura, hanno oltre 20 milioni di abitanti, un terzo del totale della popolazione, e producono 700 miliardi di ricchezza, quasi il 40 per cento del Pil nazionale. La Lombardia, da sola, invia a Roma 60 miliardi di tasse residue ogni anno. Questo non le legittima, sia chiaro, alla secessione e neppure a scrollarsi di dosso tutti i doveri solidaristici. Ma nemmeno la solidarietà, come espressione dell’unità nazionale, può per loro trasformarsi in motivo preclusivo o fortemente limitativo dell’autonomia stessa. Se si utilizzasse l’argomento dell’unità per bloccare questo processo, arrecheremmo uno sfregio profondo alle libertà politiche ed economiche di quei territori, calpestando i diritti di chi dà. Il conto finale potrebbe essere salatissimo in termini, proprio, di mantenimento dell’unità, che diventerebbe uno sterile feticcio.

Può sembrare paradossale, ma rafforzare l’autonomia è il solo modo, oggi, per fortificare l’unità perché diversa è la sua percezione generale. Mentre nel Risorgimento l’unità fu cemento fondativo della patria per respingere lo straniero e nel ventennio fu l’essenza del nazionalismo e della retorica dell’identità; mentre negli anni Cinquanta divenne sinonimo di solidarietà economica per ricostruire strade, case, ponti, e negli anni successici fu garanzia di diffusione dei servizi pubblici e del benessere “dall’Alpe a Sicilia”, oggi il discorso deve essere impostato diversamente, perché diverso è il sentire che la vivifica. Il munus, il dono, il dare e darsi (communitas, ossia cum munus), va bilanciato con altri valori per diventare un dare equo, altrimenti il distacco sentimentale dallo Stato e dagli altri si potrebbe trasformare in un’immensa voragine.

Se si vuole che l’unità rimanga per tutti elemento di garanzia valoriale occorre che la prossimità tra singolo, territorio, spesa e tributi sia adeguatamente valorizzata. Solo così il dare con le tasse potrà tornare ad essere vissuto come equo anche per la loro porzione destinata allo Stato centrale e poi alle regioni più svantaggiate. La prossimità, intendiamoci, è soltanto uno degli ingredienti dell’equità, ma senza di essa il senso di comunità nazionale è condannato a sgretolarsi sempre più per lasciare il posto a esasperazione e ribellione, a una voragine, appunto, dalla quale sarebbe impossibile risalire.

Crediamo nelle autonomie, allora, se vogliamo più unità!

Aggiornato il 08 luglio 2019 alle ore 11:21