La torre pendente del Governo

“Evviva la Torre di Pisa che pende, che pende e mai non cadrà”, cantava Mario Latilla nel 1939. È invece probabile che la maggioranza di governo venga giù in tempi molto ravvicinati.

Che non fosse marmorea, come lo è la Torre, lo sapevamo fin dall’inizio, ma che fosse a tal punto crepata da rischiare di cadere in Parlamento è un dato acquisito nelle ultime ore. In Senato, infatti, col passaggio di alcuni eletti nel Movimento 5 Stelle al gruppo misto, lo scarto tra forze di governo e di opposizione è ridotto a tre. Basta un colpo di vento forte, un maestrale sostenuto, e la Torre cadrà.

E che il maestrale già soffi è altrettanto certo. Si tratta però di vedere se manterrà l’intensità della brezza tesa o quella della tempesta. Alle profonde divergenze programmatiche tra i due partiti di governo, cucite alle meno peggio col filo contrattuale, in queste settimane si sono sommate le turbolenze dei mercati, le difficoltà con la Commissione europea, i conti pubblici fuori squadra, le inchieste infuocate della magistratura. Ma soprattutto sono arrivati i risultati delle elezioni europee, il conseguente e forse irrimediabile indebolimento della leadership di Luigi Di Maio, la smania di assolutismo di Salvini che lo porta ad alzare continuamente la posta: dallo sforamento di tutti i parametri di bilancio per realizzare un moncherino di Flat tax, all'autonomia delle regioni del nord.

Alla Lega, a questo punto, conviene forse dar fiato al vento e far cadere subito la torre sulla questione della riduzione delle tasse. Sulle tasse gli italiani sono disposti a perdonare, il portafoglio val bene una legislatura. D'altra parte, se i sondaggi sono veritieri, il pieno dei voti consentirebbe al partito in camicia verde di ipotecare l'elezione del Presidente della Repubblica, di chiudere i conti con una parte della magistratura, cancellando regole dettate dalla follia giustizialista, di rallentare lo scorrere del fiume assistenzialista, di realizzare il federalismo, seppure infarinato da decentramento o autonomia differenziata, e infine di recuperare il consenso tra gli imprenditori del nord. Un bel bottino programmatico. Fratelli d'Italia si allineerebbe senza troppe difficoltà.

Diverso il discorso per i 5 Stelle. Il Movimento non ha probabilmente interesse al voto in settembre: al prossimo giro non solo perderebbe metà dei voti e dei seggi, ma sarebbe destinato a tornare all'opposizione, e lì a rimanere fino all'esaurimento delle scorte elettorali. Il fronte dell’opposizione è spaccato. Il Partito Democratico a trazione Nicola Zingaretti ha forse convenienza alle elezioni settembrine. Il motivo è semplice, niente di grandioso o strategico: col nuovo voto i gruppi parlamentari uscirebbero finalmente dal controllo di Matteo Renzi, che ancora ha i numeri per mettere un po’ di sabbia nel motore.

Forza italia, al contrario, non ha interesse ad anticipare le urne: troppo poco tempo da qui a settembre per riorganizzarsi e troppo poco tempo per pianificare la nascita di un vero partito liberal, riformatore e moderatamente sociale. Una cosa è certa: Silvio Berlusconi si è dimostrato genio politico ancora una volta, insediando un team di compromesso e scongiurando, in questo modo, la scissione di un partito in caduta libera. Ma questa mossa, pur fulminante, non basta per riprendere quota, occorre qualche mese in più per lanciare un nuovo programma e nuovi leader. Sempre che questo progetto, come ha scritto il direttore nell’editoriale di martedì 25 giugno, abbia testa e gambe per comminare.

E allora, la torre cadrà? È molto probabile, il maestrale è già brezza tesa. Basta che dall'Unione europea arrivi qualche potente massa d’aria e il gioco è fatto.

Aggiornato il 03 luglio 2019 alle ore 13:16