Freud ci ha spiegato che la deformazione psicologica di un soggetto (innocuo o criminale che sia) che replica il proprio errore in modo spesso involontario si definisce, nel lessico psicoanalitico, coazione a ripetere. Una sorta di replicazione del comportamento negativo, il ritorno di una pulsione, la ripetizione di uno schema, sia teorico sia comportamentale.
Oggi ci troviamo dinanzi a un esempio perfetto di questa distorsione psichica individuale, applicata al piano intersoggettivo e più precisamente alla dimensione proiettiva del mondo politico e sociale. L’invettiva lanciata il 28 giugno da Adriano Sofri contro qualcuno che agisce in nome del governo e che è identificabile in Matteo Salvini, il quale non viene citato esplicitamente ma che, come traspare dalle intenzioni che la motivano, è in piena luce come oggetto diretto (secondo quella che gli scolastici chiamavano intentio recta, non obliqua) di tale invettiva, è un istruttivo banco di prova per chi voglia studiare varianti del meccanismo della coazione.
Ma, senza fare qui psicoanalisi, vediamo cosa dicono e, soprattutto, cosa hanno inteso dire quelle righe offensive e velenose, e proprio perché velenose potenzialmente letali. La loro causa immediata è il blocco della nave pirata Sea Watch dinanzi al porto di Lampedusa, la sua violazione da parte del comandante Carola Rackete e la reazione, legittima e legale, da parte del responsabile dei confini e della sicurezza nazionali, il ministro dell’Interno. Ma la loro genesi risale a mezzo secolo fa.
Ormai tutti conosciamo, nostro malgrado, quelle poche righe che non serve qui citare e che trascendono la dimensione letteraria di una licenza poetica, della quale si servono: una secca raffica di insulti che non ci saremmo aspettati di trovare in uno scrittore aduso più alla raffinatezza che alla volgarità; un’eruzione che oltrepassa qualsiasi limite tollerabile per esprimere la libertà di opinione, esercitandola in una forma inusitatamente gretta e violenta. Ancora più gravi sono però i possibili esiti deflagranti che tale triviale attacco può suscitare, le sue possibili conseguenze pragmatiche, dirette oppure eterogenetiche: questo è il punto decisivo, la vera questione politica e perfino storica che dobbiamo affrontare.
Analizzato con gli strumenti della psicopatologia fenomenologica, assai più rigorosa di qualunque variante della psic(o)analisi, quel microtesto rivela un orizzonte psichico-esperienziale talmente egotistico da eccedere i confini del sé e i limiti del mondo esterno, e mostra pure un’essenza ideologica che fa dell’attacco sfrenato e violento a chi è considerato nemico non solo una circostanza bensì una specie di metodo, dico specie perché non ha la struttura del metodo, ma ha certamente la ricorsività, svelando un eidos-invettiva che può restare latente per anni, forse nel caso di Sofri anche per decenni, ma di fatto (e il fatto di quelle righe è incontrovertibile) non scompare, perché coessenziale alla struttura psichico-comportamentale più profonda del soggetto oggetto di questa interpretazione. L’autore tradisce un rancore e mostra una evidente incapacità di trattenersi, di frenare istinti che oltre a svilire l’autore stesso sono a loro volta anche causa di una sequenza pre-razionale, e come tale incontrollabile, di atti istintuali da parte di chiunque si senta sollecitato da quelle espressioni a dare, per emulazione, spessore materiale all’attacco verbale o scritto.
E proprio perché quelle righe non sono un semplice sfogo, una mera manifestazione di quella che, per usare un eufemismo, potremmo definire incontinentia personale, bensì rappresentano un gesto politico e quindi un atto dalle implicazioni sociali, emerge qui la dimensione politica, che ci costringe a ritornare con la memoria a cinquant’anni fa, quando un testo dalle caratteristiche psico-politiche che il metodo fenomenologico ci mostra essere identiche (come loro eidos) a quelle delle righe odierne di Sofri – cioè l’accusa anonima o redazionale che il 6 giugno del 1970 il giornale Lotta Continua sferrò contro il commissario Luigi Calabresi, da cui scaturì la famigerata lettera del giugno ’71 pubblicata da L’Espresso – produsse un crescendo di odio e di violenza che sfociò nell’infame assassinio del commissario.
Una vecchia prassi stalinista o più in generale comunista: si addita un innocente come colpevole di morti, singole allora o di gruppo oggi, in città all’epoca o in mare oggi, e da quel momento parte una spirale di violenza che si avviluppa su se stessa e asfissia con le sue spire tutto il mondo circostante. Quella spirale dei primi anni settanta fu irrefrenabile e mortale: è pensabile che quella di cui stiamo ora vedendo il prodromo possa essere fermata sul nascere, magari dalla buona volontà di chi, per coazione a ripetere, rischia ora di riavviarla?
Credevamo che quelle oscenità (uso il termine in senso baudrillardiano) e quelle criminosità (mutuo il termine dalle varie sentenze della magistratura giudicante) si fossero inabissate per sempre nei meandri della storia e negli anfratti della psiche, marcite con la putrefazione dell’ideologia comunista. E invece ecco che la realtà ci smentisce, riservandoci una brutta sorpresa, qualcosa che non solo speravamo ma ragionevolmente immaginavamo di non vedere mai più: l’attacco verbale che, come era accaduto per il compianto ed eroico commissario Calabresi, può tradursi in aggressione fisica.
Attenzione: così iniziarono gli anni di piombo, il calvario nazionale del terrorismo, del brigatismo rosso e dei suoi fiancheggiatori, un terrore e un orrore nel quale non vorremmo nuovamente precipitare. Oggi a sinistra è di moda denunciare i cosiddetti discorsi d’odio: bene, queste brutte righe sono un autentico discorso d’odio, perché trasudano un astio macerato che è puro odio. Vorremmo sentire da quella stessa sinistra una condanna, alta e inequivocabile, di queste parole odianti.
Ma se chi le ha espresse ha un minimo senso di responsabilità verso la società e verso la storia, deve fare attenzione, perché un modo della mente può diventare una realtà dell’azione. L’apprendista stregone, e come in questo caso anche lo stregone esperto, può creare un mostro che non riesce più a controllare e che può finire in mani criminali. Sarebbe il caso invece che vi fosse un controllo ovvero un auto-controllo che bloccasse sul nascere pulsioni talmente brutali da risultare ingestibili e soprattutto utilizzabili da altri per fini delittuosi: dall’odio verbale all’omicidio reale.
La colpa dell’elzeviro di Sofri infatti non è tanto di aver insultato e diffamato un ministro della Repubblica, quanto di essere una occulta e, speriamo, inconsapevole istigazione a delinquere: occulta perché non c’è traccia esplicita, ma istigazione perché riproduce, coattivamente, uno schema delinquenziale come quello contenuto negli articoli del 1970 e del 1971 contro il commissario Calabresi, che finirono col produrre realmente un omicidio.
Non semplificherò, e quindi non dirò che Sofri ha perso il pelo ma non il vizio, e tuttavia non riesco a cancellare l’immagine angosciante di un passato orribile, la visione raccapricciante di maestri d’odio che generano mostriciattoli assassini, la scena insanguinata da un’ideologia che nel Novecento ha prodotto cento milioni di morti nel mondo e 370 morti (oltre a mille feriti) in Italia fra il 1968 e il 1982.
C’è solo una cosa che potrebbe allontanare quella visione e, soprattutto, scongiurare la ripetizione delle conseguenze. Una tempestiva retractatio – che non sarebbe una manifestazione di debolezza ma un atto di coraggio politico e di responsabilità civile – da parte dell’autore di quel corsivo potrebbe rappresentare una rottura con quella coazione e, soprattutto, sarebbe il segno tangibile che quella stagione è davvero finita, condannata non solo dalla storia (e dai tribunali) ma finalmente anche da coloro che, intenzionalmente o per incoscienza, l’avevano animata.
Aggiornato il 01 luglio 2019 alle ore 13:12