Salvini: il mare, le stelle e le pietre d’inciampo

Al Governo la ruota della fortuna comincia a girare dal verso giusto. La preoccupazione per la minaccia della procedura d’infrazione sui conti pubblici sventolata dalla Commissione europea si è sgonfiata. Segno che un’Italia che inizia a impuntarsi con i partner dell’Unione non è vero che non faccia paura a nessuno. Siamo al solito, annoso problema delle scarse competenze degli attori in campo. A Bruxelles (e in Italia) qualcuno aveva pensato di trattare il nostro Paese alla stregua della Grecia senza rendersi conto che per palmari ragioni economiche, produttive e geopolitiche l’Italia non sta nel Peloponneso.

È nostro convincimento che una parte del merito del rinsavimento delle cancellerie europee sia frutto della visita di Matteo Salvini all’Amministrazione statunitense. Sarà un caso, ma è da quando il leader leghista si è incontrato con il capo della diplomazia Usa, Mike Pompeo, che la strada del Governo giallo-blu è meno accidentata. In pochi giorni, la Commissione ha lanciato segnali distensivi sul negoziato per evitare la procedura d’infrazione e ha confermato l’intenzione di aumentare dal 40 al 55 per cento la quota d’investimento europeo nella costruzione della Tav Torino-Lione, come a dire: dite sì e ve la paghiamo noi da Bruxelles. I mercati finanziari che restano tranquilli sui titoli del nostro Debito sovrano. Poi la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che rigetta il ricorso della Ong volto a imporre allo Stato italiano di accogliere la nave “Sea Watch-3”. Come si direbbe dalle nostre parti: “Troppa grazia Sant’Antonio”.

Com’è di tante attenzioni? La verità è che non vi sia in natura niente di più finto dell’Unione europea. Si tratta di un costrutto giuridico-burocratico che è servito finora a soddisfare gli interessi egoistici degli Stati nazionali, compreso il nostro. E quando il motivo di fondo dell’unità formale dipende dal concorso dei molteplici interessi di parte, il più delle volte tra loro confliggenti, è inevitabile che l’interazione tra gli Stati membri e la stessa entità comunitaria sovranazionale sia regolata dai rapporti di forza. Il Governo in carica sta mostrando capacità di tenuta e di reazione rispetto alle pressioni esterne che i Governi precedenti guidati dal centrosinistra non hanno avuto. La resilienza che oggi attribuiamo all’Esecutivo giallo-blu non è merito di entrambe le sue componenti. Almeno non in eguale misura. La tempra mostrata è opera dell’ala leghista e di Matteo Salvini in particolare. I Cinque Stelle hanno ben presto mostrato il proprio spessore politico, che è scarsissimo. Il Movimento, nato per cavalcare pulsioni emotive transitorie, quando è stato chiamato a guidare il Paese è andato in crisi. I modelli di società a cui fa riferimento sono superati, se non palesemente strampalati. Di fronte all’incapacità a governare la complessità, gradatamente la dirigenza grillina si è aggrappata alla tecnica del rifiuto sistematico di qualsiasi innovazione. Il “No” è divenuto strumento dell’azione politica. Ma l’elettorato non ha gradito. Dopo aver dato loro un’apertura di credito, avendoli visti all’opera, l’ha ritirata prontamente. Resistono ancora al potere perché è Salvini che ce li tiene. Ma per quanto ancora potrà durare tale finzione? Dipende.

Il rebus ammette molte variabili che potrebbero condizionarne l’esito finale. Non però dalla parte del Movimento Cinque Stelle, per i quali l’unica incognita riguarderebbe il momento della sua implosione. I punti interrogativi stanno tutti dal lato leghista. Il dato acclarato è che il Governo va avanti a condizione che si realizzi il pacchetto di riforme che stanno a cuore alla Lega. Altro elemento consolidato è che i Cinque Stelle, per restare in gioco e tenere un residuo potere, devono sottostare ai comandi dei leghisti. Possono provare a fare ostruzionismo per rallentarne i tempi di attuazione o, quanto meno, cadenzarli per renderli più digeribili al giudizio dei loro militanti. Ed è ciò che stanno facendo sui provvedimenti ritenuti più ostici. Uno in particolare è più duro degli altri da mandare giù: la concessione dell’autonomia differenziata al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna. In realtà, è comprensibile che i grillini siano spaventati all’idea di varare una riforma destinata a cambiare profondamente la natura dello Stato. Svuotare quasi del tutto la Pubblica amministrazione centrale delle sue competenze storiche per devolverle in via esclusiva alle Regioni è un salto nel vuoto. I Cinque Stelle temono che attraverso l’autonomia differenziata salti la coesione nazionale, con un’area geografica che consoliderebbe il benessere raggiunto in danno dell’altra area che, invece, sprofonderebbe rapidamente nel baratro. Si tratta di un falso problema. Le divisioni che hanno impedito finora la convergenza tra l’economia meridionale e quella del Nord sono avvenute in regime di massima centralizzazione delle funzioni pubbliche e delle risorse. Salvini è consapevole di riuscire a convincere i grillini, ma ha bisogno di tempo. Il vero problema è che la base settentrionale della Lega, in particolare quella veneta, non è disposta a concedergliene altro. Vuole l’autonomia subito. Ora, se i governatori leghisti di Veneto e Lombardia, Luca Zaia e Attilio Fontana, ponessero l’aut aut al loro capo in ordine all’approvazione delle intese Stato-Regioni sull’autonomia, per Salvini sarebbe un bel problema continuare a tenere in piedi il Governo. Adesso che neppure la Tav è più un tabù per i pentastellati, il “Capitano” deve convincere i suoi ad avere maggiore pazienza e a non precipitare gli accadimenti. L’argomento che può usare per convincerli c’è ed è di sicuro impatto. Non esiste alcun automatismo che garantisca l’immediato ritorno alle urne in caso di crisi di Governo. I grillini, pur di non tornare al voto sarebbero pronti ad accettare, alla disperata, un governo tecnico ispirato dal Quirinale, che si prenda la briga di scrivere la prossima manovra finanziaria alla maniera più gradita ai falchi di Bruxelles. E pur di disarcionare Salvini dal cavallo in corsa, i piddini sarebbero pronti a votare qualsiasi accrocco. E non è detto che anche Forza Italia non si aggreghi alla cordata dei “responsabili” pur di scansare urne autunnali che potrebbero rivelarsi assai impietose. Il “Capitano” una cosa l’ha capita alla perfezione: sordo a tutte le più ammalianti sirene che lo invitano a rompere il Contratto di governo profetizzando alla Lega guadagni elettorali stratosferici, non porterà il Paese alle urne prima dell’implosione del Cinque Stelle. Lo capiranno anche Zaia e Fontana? Già, perché come diceva il mitico Totò: ogni limite ha una pazienza.

Aggiornato il 01 luglio 2019 alle ore 10:29