La battaglia di Tripoli e l’abulia italiana

Gli errori in politica si pagano. E di errori l’Italia, sulla questione libica, ne ha commessi tanti. Dall’escalation del 2011, che portò alla caduta del regime di Mu'ammar Gheddafi, i governi italiani, tutti, non ne hanno azzeccata una.

Oggi, nel tempo storico dei leghisti e dei grillini, non si riesce a capire se l’Italia abbia una propria linea strategica per la soluzione del rompicapo libico, e quale. Acclarato che la sorte del Paese nordafricano sia destinata a incidere sulla stabilità economica e sociale dell’Italia, Roma avrebbe dovuto agire con maggiore decisione e, quando gliene è stata offerta l’occasione, “mettere gli scarponi” sul suolo libico alla testa di una forza militare multinazionale di peacekeeping. Ma la politica nostrana ha avuto paura di sporcarsi le mani preferendo le cosiddette “vie diplomatiche” che non hanno portato a nulla se non a finire fuori pista. Roma ha deciso di puntare sulla presidenza di Fayez al-Sarraj pur consapevole che il leader libico sarebbe stato debolissimo non avendo alle spalle un esercito organizzato ma solo le milizie delle tribù alleate, mentre ha assistito inerme alla lievitazione del “fenomeno Haftar”. Il “generalissimo” della Cirenaica, che prova a conquistare Tripoli, non è un eroe del popolo, portato sugli scudi dal vento della rivoluzione. Piuttosto, è una figura ambigua. Come soldato non è stato granché. Fedelissimo di Gheddafi, che lo aveva messo al comando dell’esercito, fu cacciato dal dittatore quando nel 1987 rimediò un’umiliante sconfitta nella disastrosa spedizione libica in Ciad. Lontano dalla sua patria, Khalifa Haftar ha vissuto comodamente da esiliato negli Stati Uniti, coccolato dall’intelligence americana, che lo considerava una preziosa fonte d’informazioni su Gheddafi. In Libia è tornato a insurrezione scoppiata per ritrovarsi da protagonista nella partita della ricostruzione. Il resto è cronaca.

Haftar, giocando la carta dello sfruttamento delle risorse energetiche di cui il Paese è ricco, ha promesso guadagni in giro per il mondo, ottenendo che si componesse un variegato fronte di Paesi interessati a vederlo sul trono d’argilla di Tripoli. Francia, Egitto, Federazione Russa lo hanno posto sotto la loro ala protettrice. Gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita hanno aperto al feldmaresciallo i cordoni della borsa. Non propriamente per fare guerra, perché Haftar non ha la statura militare per reggere un conflitto aperto ma per fare ciò che in Libia sanno fare meglio: comprare e vendere. I soldi esteri sarebbero destinati a comprare la fedeltà delle tribù che finora hanno appoggiato il nemico al-Sarraj. Se lo shopping tra le milizie gli dovesse riuscire la Libia è sua. A fronte di questa possibilità, l’Italia sembra essersi liquefatta. Colpa dell’attuale Governo che, come quelli che l’hanno preceduto, non ha voce sufficiente per imporsi. Eppure, dovrebbe.

Posto che la situazione sia seriamente compromessa ma non ancora perduta vista la reazione difensiva di al-Sarraj, Roma dovrebbe forzare la mano con un gesto eclatante, tale da rompere gli schemi che si vanno configurando. Nell’eventualità che Haftar avesse la meglio su al-Sarraj bisognerebbe fargli trovare la mucca nel corridoio, per dirla alla Pierluigi Bersani. Occorrerebbe che un contingente del nostro esercito fosse spedito nelle prossime ore a Tripoli per rafforzare la presenza italiana in loco. Al momento è attiva la missione bilaterale di assistenza Miasit. “La nuova missione, che ha avuto inizio a gennaio 2018, ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite” (fonte: ministero della Difesa). La missione impegna in territorio libico 400 militari, 130 mezzi terrestri e navali per, tra gli altri compiti, “fornire attività di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring a favore delle forze di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, in Italia e in Libia, al fine di incrementarne le capacità complessive” nonché “garantire un’adeguata cornice di sicurezza/force protection al personale impiegato nello svolgimento delle attività/iniziative in Libia”.

Non occorre alcun consenso internazionale per decidere bilateralmente il potenziamento del contingente e la sua dislocazione in posizioni sensibili (porti, aeroporti, impianti petroliferi, ospedali, siti di accoglienza dei migranti). Haftar sconfigge al-Sarraj? Pazienza, ma almeno prepariamogli il benvenuto con qualche migliaio di nostri soldati armati ed equipaggiati di tutto punto sparpagliati tra Tripoli e dintorni. Oltre che ubbidire agli sponsor Haftar sarà costretto a negoziare anche con Roma. Con un problema in più. Il pretesto di un’improvvisa ripresa in massa di emigrazione clandestina verso l’Italia autorizzerebbe il Governo italiano ad applicare il blocco navale fuori le coste libiche. Purtroppo, non abbiamo una classe politica, in maggioranza o all’opposizione, all’altezza del compito. Si dirà: c’è Matteo Salvini. Bisogna essere realisti nei momenti cruciali per la vita del Paese. Il leader leghista ha molte qualità ma non ha ancora dimostrato di avere la capacità di lettura del quadro d’insieme geopolitico che deve appartenere a uno statista. Troppo impegnato nella propaganda spicciola per sperare che sollevi lo sguardo dalle vicissitudini quotidiane e punti l’occhio su Tripoli. Quindi, sull’affaire Libia prepariamoci al peggio. Se al-Farraj cade diciamo per sempre addio al bel suol d’amore. Con Haftar al potere assoluto per mantenere uno straccio di relazione con la nuova Libia il Governo italiano dovrà fare la spola tra l’Eliseo e Abu Dhabi. Che non è proprio il massimo per una storia durata uno secolo.

Aggiornato il 09 aprile 2019 alle ore 11:14