Salvini a processo, cui prodest?

Il Tribunale dei ministri del distretto di Corte d’appello di Catania ha chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Salvini, per l’accusa di sequestro di persona. I fatti contestati riguardano il braccio di ferro ingaggiato dal vicepremier per impedire lo sbarco, poi solo ritardato, nel porto di Catania degli immigrati recuperati in mare lo scorso 16 agosto dalla nave Diciotti della nostra Guardia Costiera.

Per i giudici il ministro, abusando delle funzioni amministrative, si è reso responsabile di “illegittima privazione della loro libertà personale al di fuori dei casi consentiti dalla legge”. Il Senato ha tempo sessanta giorni per pronunciarsi. Saranno due mesi di dolori perché la questione rilanciata da Catania scompagina la scena politica. In realtà, la vicenda si presenta come un caso paradigmatico di uso distorto della funzione giurisdizionale. Ciò che i magistrati vogliono processare non è un comportamento illecito di una persona ma un atto politico. Se fossimo in un Paese serio neanche si dovrebbe discutere un caso del genere, ma siamo in Italia dove tutto è possibile, anche l’impossibile. Riguardo alla strategia difensiva, Matteo Salvini ha due opzioni.

La prima. Accettare di essere processato. In tal caso dovrebbe esplicitamente rinunciare all’immunità che la Costituzione garantisce “all’inquisito (che) abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Potrebbe essere conveniente seguire tale strada perché gli assicurerebbe un’esplosione di consenso elettorale proprio nella fase che precede le urne delle europee. L’opinione pubblica vedrebbe la scelta di Salvini di farsi indagare e, presumibilmente processare, come l’atto estremo di un politico che ha fatto della coerenza la sua cifra di governo. Non molti, soprattutto nella fila del centrodestra, hanno compreso l’importanza del valore della coerenza in questo tempo storico. Non hanno compreso che a far salire o scendere il gradimento nei sondaggi non è più l’appeal mediatico o la capacità affabulativa del leader carismatico di turno ma il grado di affidabilità che questi dimostra nel mantenere la parola data agli elettori.

Di Salvini si potrà dire peste e corna, ma su una cosa tutti concordano: fa ciò che promette. Un tentativo di processarlo sarebbe interpretato come un attacco alla sua volontà di mantenere gli impresi presi, il che equivale a santificarlo in una campagna elettorale in pieno svolgimento. Ma questa strada ha una controindicazione: toglierebbe le castagne dal fuoco ai grillini. Il Movimento cinque stelle è il re travicello di questa vicenda. Per un verso votare a favore dell’autorizzazione a procedere sarebbe uno sconfessare l’azione del governo di cui i grillini sono magna pars. Mandare a giudizio Salvini verrebbe giudicato alla stregua di un voltafaccia non solo all’alleato di governo ma alla stessa linea politica che sorregge l’esecutivo, stampigliata nel famoso “Contratto”. Per i grillini sarebbe auto-sfiduciarsi. E, come può stare in piedi un governo che non ha più la fiducia di se stesso? L’inevitabile crisi istituzionale li coglierebbe nel momento di maggiore difficoltà perché, non essendo ancora riusciti a dispiegare gli effetti dei provvedimenti-bandiera varati, rischierebbero una gravissima débâcle in sede di passaggio elettorale.

La seconda. Salvini può affidarsi alla decisione del Senato, non prima di aver rimarcato con un discorso alto pronunciato nell’Aula di Palazzo Madama e ascoltato da tutta la nazione la coerenza del suo comportamento rispetto al tentativo, preludio di un grave vulnus democratico, di una parte del potere giudiziario di surrogare le minoranze partitiche nel ruolo di opposizione al governo in carica e alla maggioranza parlamentare che lo sostiene.

La volontà di resistere all’attacco dei magistrati catanesi porrebbe in grave imbarazzo i grillini, costretti a scegliere se difendere il proprio operato di governo difendendo Salvini o se, al contrario, far prevalere l’ottusa logica di subordinazione della politica al potere dei giudici, iscritta nel loro Dna giustizialista. La norma costituzionale prevede che a decidere sia il ramo del Parlamento d’appartenenza dell’inquisito a maggioranza assoluta dei suoi membri. Ora, pallottoliere alla mano, Salvini può contare sui voti della Lega oltre a quelli di Forza Italia e Fratelli d’Italia che si sono prontamente pronunciati per il no. Si tratta di 137 voti ai quali si potrebbe aggiungere una parte dei senatori del gruppo misto. Il che porterebbe la pattuglia dei contrari ad un numero vicino alla maggioranza assoluta.

L’arroccamento di Salvini agiterebbe le acque anche nel Partito democratico, dove una quota di sedicenti garantisti, vicini all’ex segretario Matteo Renzi, potrebbe sfruttare l’occasione dell’ordalia sul capo leghista per mandare un messaggio ostile al segretario del Partito che sarà eletto proprio in concomitanza con l’epilogo dell’iter parlamentare dell’autorizzazione a procedere. Soprattutto se a vincere il congresso del Pd sarà l’anti-renziano Nicola Zingaretti. Comunque vada, a Salvini, vittima illustre, questa brutta invasione di campo della magistratura ha già prodotto un risultato. Infatti, Luigi Di Maio, già “commissariato” dall’ingombrante Alessandro Di Battista, se si schiera con Salvini salva la poltrona di governo ma si vedrà crocifisso dall’ala sinistra del suo Movimento, che non aspetta altro per metterlo sulla graticola; se cede alle pressioni di votare per l’autorizzazione a procedere, dovrà prepararsi alla crisi di governo che segnerà la fine della sua carriera politica.

Comunque si muova, è messo male. La palla è in gioco. Rien ne va plus.

Aggiornato il 28 gennaio 2019 alle ore 13:54