Chissà se in questi momenti difficili i grillini stanno ripensando a quanto era bello fare opposizione. Era una vera cuccagna, bastava dire che gli altri erano dei corrotti e che era tutto un magna magna e il gioco era fatto. Bastava dire che erano tutti uguali e che, nel nome del potere, erano tutti pronti ad accordarsi alle spalle della povera gente per fare cose inconfessabili. Scattava subito l’applauso del pueblo frustrato, giacobino e con la bava alla bocca. Invece quelle maledette elezioni del quattro marzo sono state un vero shock, una doccia fredda dalla quale i capetti Pentastar e gli elettori difficilmente si riprenderanno: come giustificare (in primis a se stessi) che quello che una volta si derubricava a inciucio oggi si chiama contratto di governo e che in due mesi loro, i duri e puri grillini, ci hanno provato con tutto l’arco parlamentare (manco fossero delle ninfomani) pur di poggiare le terga sulla cadrega? E con che metodi poi: provando a indurre la Lega a tradire gli alleati e provando a riportare il Partito Democratico al Governo dopo averlo sputacchiato in tutti i modi.
Come spiegare al popolo degli onesti che grazie a un accordo con Silvio Berlusconi, quello che era il male assoluto, c’è stato lo scambio di cortesie che ha portato all’elezione di Roberto Fico ed Elisabetta Casellati? Quanto era bello quando si poteva urlare al conflitto di interessi di Berlusconi senza che nessuno ti facesse notare che anche il Movimento Cinque Stelle è un partito-azienda con delle connessioni tutte da spiegare con la Casaleggio Associati.
E quanto era semplice quando si poteva evocare la fantomatica onestà (che faceva rima con Rodotà e non con Casellati) senza che nessuno ti venisse a fare le pulci trovandoti con la donna di servizio in nero manco fossi un “Mariaelenaboschi” qualsiasi. La vecchia politica in questi due mesi si è vendicata provando ai più che la demagogia giustizialista da post-dipietristi a Cinque Stelle era solo un fatto estetico, un’ipocrisia buona per fare perno sulla parte più becera e forcaiola dell’elettorato, una cortina fumogena di perbenismo dietro la quale si nascondono metodi del tutto simili a quelli della Kasta.
Le Cinque Stelle si sono ormai fulminate e rimane una luce tanto fioca quanto triste a ricordare i bei momenti che furono, un velo di malinconia mista a rabbia che fa esternare a Luigi Di Maio – un attimo prima di togliere il disturbo – tutto il suo disappunto verso una politica cinica e bara che non lo ha capito, che non si è prostrata alle sue aspirazioni di governo fornendo i voti all’Esecutivo della “gggente” senza chiedere niente in cambio. Quella politica corrotta e smaliziata non ha avuto timore reverenziale verso i cittadini con l’apriscatole in mano guidati dal carismatico “Giggino” cui tributare solo canti e lodi di ammirazione mentre gli si consegna il Paese in segno di resa manco fosse un nuovo Messia venuto da Pomigliano.
I pentastellati – ma soprattutto i loro elettori – hanno preso una bella facciata scoprendo che la realtà è molto più dura della sciocca faciloneria di chi parla per sentito dire. L’unico a capirlo è stato quel furbastro di Alessandro Di Battista, che si è dato all’ippica saltando un giro nell’attesa di tempi migliori e lasciando che fosse Di Maio a fare da apripista accumulando bagaglio esperienziale per tutti. O Giggino non aveva pensato neanche a quanto era stato furbo il “Dibba” a darsi alla macchia?
Aggiornato il 05 maggio 2018 alle ore 14:05