Post-voto: dove va il Pd?

Tutto purché decolli. L’ambizioso Luigi Di Maio si dice pronto a tirar giù dalla navicella della sua mongolfiera, a uno a uno, tutti i ministri della lista che aveva recapitato al Quirinale prima dell’apertura delle urne. Segno che quella genialata era niente più che una messinscena a uso dei media e degli elettori. I quali, quest’ultimi, sono cascati nella pantomima del “Movimento” che dà conto ai cittadini di ciò che fa ancora prima di farlo. Quindi, sipario calato sulla gesuitica diversità dei Cinque Stelle. Così fan tutti e Di Maio non fa eccezione. Vuole Palazzo Chigi e per questo obiettivo è pronto a fare di più che negoziare: è pronto a svendere. Oltre gli improbabili scranni dei ministri del suo “Dream team” anche quei valori –guida che hanno fatto la fortuna del partito grillino. Ma trattare con chi? Evidentemente con chi ci vuole stare che, tradotto, significa con chi accetta il suo gioco. Il sospettato numero uno è Matteo Salvini, ma chi lo pensa commette un grave errore di lettura delle dinamiche innescate nel centrodestra. È piuttosto al Partito Democratico che bisogna guardare.

Nella sede del Nazareno regna il caos. L’uscita di scena, almeno apparente, di Matteo Renzi ha scatenato il ritorno degli spiriti animali in coloro che antepongono i propri interessi di rivalsa o di vendetta al bene del Paese. Si potrebbe azzardare che nel Pd sia in atto una no-stop della notte dei lunghi coltelli. E come in ogni regolamento dei conti che si rispetti, anche tra i “dem” rispuntano al fianco degli odierni duellanti i “trombati” del passato che ci mettono del loro per arroventare un clima già incandescente. In queste ore fa capolino sulla scena Walter Veltroni che di sconfitte se ne intende. Ma non doveva andare in Africa a insegnare il neo-realismo nella cinematografia italiana del Novecento ai bambini degli slum di Nairobi? Invece, l’uomo della fusione fredda del Pd è di nuovo in circolazione per spingere il partito verso la resa senza condizioni all’arrembante ascesa grillina.

È proprio vero ciò che si dice, quando si tocca il fondo c’è sempre un’alternativa alla risalita: scavare. Non pago di essersi condannato all’irrilevanza nel futuro del Paese questo centrosinistra vuole farsi ancora più male. Perché associarsi al potere con i Cinque Stelle vorrebbe dire negare la storia della sinistra, delle sue battaglie di emancipazione, del suo tentativo di conciliare le ragioni della difesa delle classi deboli con quelle dell’economia della globalizzazione. Non avremmo mai pensato un giorno di dover dare ragione a Matteo Renzi. La sua idea di collocare il partito all’opposizione senza cedere alle lusinghe dei Cinque Stelle ha un senso, soprattutto nella prospettiva di costruire un riscatto elettorale che, per quanto improbabile nell’immediato, non può essere escluso in prospettiva futura.

Comunque, per quanto la schiera dei disponibili al sostegno a Di Maio cresca di giorno in giorno resta il fatto che per essere efficaci i “dem“ dovrebbero assicurare l’appoggio in toto della loro pattuglia parlamentare. Basterebbero poche defezioni per mandare all’aria i disegni della nuova cricca di “responsabili”. E guardando i numeri e le facce degli eletti del Pd, di renziani fedeli al capo ce ne sono ancora molti. Ma allora perché questo suicidio annunciato dall’ala dei franceschiniani, degli eternamente indecisi orlandiani, dei fin troppo decisi amici di “Emiliano il pugliese”, a cui si sono aggiunti Walter Veltroni & Friends? L’analisi dello scenario che motiva la loro scelta ruota intorno a un implicito riconoscimento della vittoria del centrodestra. Evidentemente costoro temono l’installarsi al governo di una destra a guida Salvini molto più di quanto li spaventi una stagione sotto il segno grillino. In fondo, non hanno tutti i torti. Mentre il centrodestra ha dimostrato di avere una visione del futuro che attende solo di essere attuata, i Cinque Stelle dal punto di visto programmatico continuano a essere un insieme di dilettanti allo sbaraglio con poche idee e pure confuse. Ed è proprio su questa debolezza strutturale che i “dem- aperturisti” fanno affidamento. Restare agganciati alla ruota dei vincitori consentirebbe loro, una volta svelata all’opinione pubblica l’incapacità di Luigi Di Maio e soci nel dare risposte efficaci al Paese, di potersi ripresentare all’elettorato promettendo di fare compiere alla società italiana piccoli passi in avanti, ma concreti. Che poi è stato il refrain della campagna elettorale di Paolo Gentiloni e dei suoi sodali. Ma questa strategia solo in parte potrebbe essere convincente. Non lo è del tutto perché manca di un passaggio fondamentale del quale non si rinviene traccia: una profonda analisi dei motivi della sconfitta.

Troppo facile, finanche scontato, rovesciare tutte le colpe sulla testa dell’ex leader fiorentino. Ma è sufficiente per spiegare ciò che è accaduto nelle urne? Certo che no. Se vuole riprendere a rappresentare la sinistra del riformismo nella post-modernità il Partito Democratico deve riflettere a lungo sulla sua ricollocazione all’interno della società. Deve ridefinire il blocco sociale di rifermento avendo da tempo abbandonato quello tradizionale delle classi lavoratrici e non avendo pienamente conquistato quello, innaturale rispetto alla sua storia politica, dei ceti medi. Devono essere ben consapevoli i frondisti anti-renziani che la crisi d’identità che sta attraversando il loro campo non si risolve saltando temerariamente sul carro pentastellato. Il suicidio, anche quello politico, a volte può contenere in sé un tratto nobile. Ma non cambia la sostanza: quando uno è morto gli tocca solo un bel funerale.

Aggiornato il 21 marzo 2018 alle ore 12:59