Una nazione tisica

In un memorabile articolo sul Corriere della Sera del 2 ottobre 2016, che invito tutti a leggere o rileggere, intitolato “Quell’economia ‘tisica’ e la lezione di Cardarelli”, Giuseppe Guarino ricorda che il grande medico diagnosticò la tisi a una signora in treno semplicemente gettandole uno sguardo. Quel luminare aveva il leggendario “occhio clinico”. Premesso che “la tisi è un processo di indebolimento organico dovuto a fattori durevoli”, Guarino rileva che l’indebolimento progressivo è un fenomeno che può colpire un’impresa, l’intera economia, lo Stato stesso, e riporta l’insegnamento di Cardarelli secondo il quale “se sei in stato di tisi, devi cercare innanzitutto di non aggravarlo”. Guarino applica da par suo la lezione di Cardarelli e dimostra in particolare come, pagando l’Italia per interessi sul debito pubblico il 4,5 per cento del Pil (2/2016), l’invocata flessibilità (rectius: una dose aggiuntiva di debito) dovrebbe garantire un gettito pari o superiore al 4,5 per cento per rivelarsi un affare. Se no sarebbe, come è, pia illusione. Un aggravio, non un sollievo per la finanza pubblica.

Ma la tisi in atto è così conclamata che i sintomi può diagnosticarli ogni giorno anche il cittadino sprovvisto dell’occhio clinico cardarelliano. Quando s’imbatte in un ufficio pubblico, in un servizio pubblico, in qualcosa di burocratico constata amaramente d’essere un suddito e sente d’appartenere ad un organismo tisico, che dispera di guarire. Eccone due esempi non solo esemplificativi ma anche e soprattutto esemplari del male. Sono capitati a me che ne scrivo. Il primo. Nel 1987 cedo gratuitamente ad un Comune un fazzoletto di terra, sul quale il Comune stesso edifica poi un’edicola, ma non voltura il terreno, che al catasto resta intestato a me. Così, nel 2011, il fisco, convinto a torto che avessi ancora il terreno, mi chiede di pagarci le tasse. Vado al Comune, ritiro la copia dell’atto notarile di cessione, la porto al fisco e chiedo la voltura, che viene fatta, come risulta dalla relativa visura. Sembrava finita. Invece nel 2017 Equitalia mi intima di pagare entro sessanta giorni più di 600 euro per aver evaso la presunta imposta del 2011, cioè 50 euro. Siccome vivo a mille chilometri dal luogo dei fatti, telefono al fisco locale e spiego le cose. Mi invitano a ripresentare la documentazione già consegnata loro nel 2011. Due raccomandate con avviso di ricevimento: l’una al fisco, l’altra a Equitalia. Ora aspetto e spero che sia finita davvero.

Il secondo. Questa primavera, dovendo pagare un servizio e non avendo denaro spicciolo, entro nell’attigua banca e chiedo alla sorridente cassiera di cambiarmi un biglietto da 50 euro. La cassiera mi suggerisce di provare al vicino bar. Le rispondo che gli esercizi commerciali non cambiano soldi per timore dei falsi. Al che lei mi chiede la carta d’identità. Stavolta sorrido io, porgendogliela, sebbene esterrefatto della richiesta. Ma la signorina non demorde. Mi domanda pure il codice fiscale. Rispondo che posso dettarglielo. No, vuole la tessera sanitaria. Deve fotocopiare l’una e l’altra. Allora, tra il serio e il faceto, la ammonisco che non sarei stato tenero né con lei né con la banca se i miei documenti  fossero stati usati per scopi anche pochissimo diversi da quelli per i quali mi erano stati inopinatamente richiesti e fotocopiati. Ritornata allo sportello, la zelante ma cortesissima cassiera m’invita ad apporre due firme sotto la distinta di versamento di una banconota da 50 euro a fronte del prelievo di 5 banconote da 10 euro. Operazione conclusa. Le leggi antiriciclaggio pienamente rispettate!

Fatti del genere, che affliggono milioni d’Italiani ogni anno, sfuggono evidentemente a tutti i medici che sembrano affannarsi al capezzale della tisica Italia. Abbiamo autorità e controllori d’ogni specie. Tutti invocano riforme legislative ed amministrative per alleviare le pene della malata. Nel secolo scorso fu persino istituito un ministero per riformare i ministeri e le funzioni pubbliche, del quale dovremmo vergognarci anziché vantarcene.  Quando lo Stato non sa o non vuole ben governare degli uomini, le riforme diventano l’alibi dell’andazzo dove troppi sguazzano rinviando, ritardando, impedendo di adempiere i doveri degli uni verso gli altri mediante la rigorosa noncuranza del buon senso. Insomma l’Ucas (Ufficio Complicazioni Affari Semplici) è aperto 24 ore.

Aggiornato il 15 giugno 2017 alle ore 21:49