Emanuele: il senso della vita e della morte

Emanuele Morganti è stato colpito a morte da un branco di belve inferocite davanti alla discoteca “Mirò” nel comune di Alatri, piccolo centro del frusinate, la notte tra venerdì e sabato scorso.

È stato un omicidio orrendo, aggravato dalla futilità dei motivi all’origine del pestaggio. Forse una parola di troppo rivolta dall’aggressore, spalleggiato dai suoi complici, alla fidanzata di Emanuele. O forse no: soltanto una pura e immotivata provocazione alla quale sarebbe seguita la rissa all’interno del locale e poi l’agguato mortale fuori, come racconta l’altra protagonista della notte da incubo, la giovane Ketty, al Corriere della Sera che l’ha intervistata.

Gli inquirenti stanno indagando - ci sono già due fermi - per stabilire l’esatta dinamica degli eventi che hanno condotto alla tragica morte del giovane. Ci sono molte cose da verificare, a cominciare dal numero degli aggressori: dieci, venti, non è chiaro. Sotto la lente degli investigatori sono finiti anche i buttafuori della discoteca: sarebbero stati loro a trascinare Emanuele all’esterno del locale consegnandolo di fatto alla ferocia del branco. Le voci si rincorrono: c’è chi addita un gruppo di albanesi quali responsabili del pestaggio. Ora, affidarsi ai “si dice” non serve a nulla. Bisogna che gli inquirenti facciano presto e bene il loro lavoro perché si giunga a capo di questa vicenda: c’è una vittima innocente, ci sono i suoi familiari che reclamano giustizia.

Una sottovalutazione del caso potrebbe innescare un torbido clima da caccia all’uomo che è l’ultima cosa che serve a tenere gli equilibri all’interno della piccola comunità della provincia laziale. Tuttavia, non si può negare che le ragioni del garantismo facciano fatica a prevalere in simili frangenti. Bisogna fare i conti con le pulsioni della gente comune che, nell’apprendere delle modalità con le quali è stato ammazzato Emanuele, per istinto vorrebbe che un altro branco organizzato provvedesse a fare giustizia, magari facendo penzolare da una corda uno ad uno gli assassini di Emanuele. Sangue chiama sangue: è il richiamo ancestrale della legge della giungla. Non è per niente comodo dirlo adesso, ma va detto: non bisogna lasciarsi trascinare dall’istinto della vendetta. Anche in questa assurda circostanza ci si deve sforzare di credere che il rispetto della legge che garantisce l’incolumità degli assassini resti un valore condiviso. È duro spiegarlo ai parenti della vittima che avrebbero tutto il diritto di rispondere: facile a dirsi, ma provate a stare nei nostri panni, a non avere più lacrime da versare per quel figlio al quale è stato negato il futuro, a vegliare il suo corpo sfigurato aspettando che un dio sconosciuto scenda da un qualche paradiso a spiegare che c’è un disegno misterioso anche in ciò che è accaduto.

Non è possibile: è vero, ma bisogna pur farlo. La risposta è la legge, non la vendetta. Perché ci piace credere che la giurisdizione nelle società evolute abbia una vista più lunga del cieco odio del dente-per-dente e non si fermi a scovare gli autori materiali dell’omicidio, ma stenda il suo fascio di luce anche a quella penombra che ha fatto da sfondo alla vicenda. Testimoni raccontano che ad assistere all’aggressione di Emanuele c’erano alcune persone che non hanno fatto nulla per aiutarlo. Si sono girate dall’altra parte mentre il povero ragazzo veniva ammazzato a sprangate e il suo corpo oltraggiato dagli sputi e dagli insulti del branco ferino. Nessuno ha mosso un dito, tranne un giovane che ha tentato di fare scudo ad Emanuele. Il suo nobile gesto non è servito a salvare l’amico e neppure a scuotere le coscienze dei passanti.

L’augurio è che gli inquirenti trovino un capo d’accusa anche per loro, la cui insulsa, egoistica pavidità reca il medesimo stigma di morte impresso sulle mani insanguinate degli assassini. Giuste indagini, allora. Giusto processo per gli imputati e giusta pena per i condannati. È il solo modo di rendere giustizia alla memoria di Emanuele. Altri non ve sono. Niente vendette, solo la severa, inflessibile applicazione della legge. Se non accettiamo questa equazione del Diritto, a maggior ragione nell’ora del dolore più lancinante, siamo finiti. Come individui e come comunità.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:55