Roma-Milano: la buona prova di Minniti

Tanto di cappello al ministro dell’Interno, Marco Minniti, per l’eccellente prova di tenuta dell’ordine pubblico nella non facile giornata di sabato scorso. Il nostro Paese è stato per 24 ore sotto i riflettori dei media internazionali per lo svolgersi in contemporanea di due storici eventi: le celebrazioni dei sessant’anni dalla firma del Trattato di Roma per la costituzione della Comunità Economica Europea e la visita del Papa a Milano.

Potevano essere due momenti critici per la sicurezza. Black bloc e sospetti terroristi islamici hanno fatto salire alle stelle l’allarme attentati e violenze. Grazie a dio la giornata è trascorsa senza che si concludesse con una dolorosa conta delle vittime e dei danni. Merito delle forze dell’ordine e merito, bisogna ammetterlo, di un’accorta strategia di prevenzione e controllo del territorio organizzata dal ministero dell’Interno. L’applicazione di una leale etica cavalleresca alla lotta politica richiederebbe il coraggio di riconoscere il merito dell’avversario, di cui nulla si condivide sul fronte delle idee, quando questi fa le cose giuste. Dire che fa tutto schifo, a prescindere dai dati di realtà, soltanto perché a farlo è il nemico politico, è stupido. Se la sinistra avesse usato uguale metro di giudizio ai tempi dei governi di centrodestra, il nostro oggi sarebbe un Paese migliore.

Minniti ha messo a frutto gli anni di frequentazione, ai massimi livelli, degli apparati di sicurezza dello Stato per fare le scelte più appropriate di tutela dell’ordine pubblico. Ne hanno beneficiato i cittadini romani e milanesi preoccupati di subire le conseguenze di atti criminali incontrollati. In particolare nella Capitale, negozianti e piccoli imprenditori hanno tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. I violenti sono stati identificati e resi inoffensivi prima che provassero a dare il meglio di loro a suon di molotov, di vetrine mandate in frantumi e di automobili incendiate.

Ma la buona prova del ministro Minniti deve interrogare il centrodestra. Non sfugge la differenza qualitativa dell’azione di governo dell’attuale titolare dell’Interno rispetto al suo predecessore. Quando, in passato, abbiamo criticato la gestione del Viminale guidato da Angelino Alfano non è stato per preconcetti risentimenti verso il più ingrato degli ex-collaboratori di Silvio Berlusconi. L’inadeguatezza a svolgere il delicato incarico assegnatogli dagli accordi presi con la formazione della “grosse koalition” nel 2013 era palmare. Non solo la sua macchina dell’accoglienza degli immigrati è stata un clamoroso flop ma, in specifiche circostanze note all’opinione pubblica, il ministero da lui diretto ha rimediato figure a dir poco barbine. Il centrodestra ha avuto buon gioco a prendere le distanze dall’ex dirigente dopo la sua uscita da Forza Italia e l’avvicinamento all’area politica del Partito Democratico. Tuttavia, a voler essere intellettualmente onesti non dovremmo permettere che il problema venga rimosso con una scrollata di spalle perché esso rilancia l’annosa questione della selezione della classe dirigente del centrodestra.

Alfano è cresciuto all’ombra di Berlusconi, ma cosa ha imparato negli anni di permanenza nel cuore della politica che conta? Minniti, invece, allevato alla scuola del vecchio Pci che prestava un’attenzione maniacale alla formazione dei quadri dirigenti, si è scelto un campo d’interesse e su quello ha lavorato per acquisire competenze. Ciò vorrà pur insegnare qualcosa? Soprattutto oggi che il vento della Storia soffia a favore di un ritorno del centrodestra alla guida del Paese. Di quali uomini e donne si comporrà il team da sottoporre al giudizio degli elettori? Selezionare le persone giuste e più qualificate conta quanto se non più dei programmi di governo da realizzare. Come diceva qualcuno: le idee camminano sulle gambe degli uomini, ma se quelle gambe sono sbilenche anche le migliori intenzioni diventano bolle di sapone.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:56