Errare è umano, perseverare (sarebbe) diabolico

Non sono un cultore della cabala, ma della storia sì. Sarà per questo che, man mano che nella notte i numeri affluivano, mi è venuto subito in mente un altro referendum, quello democristiano del 1974 sull’abrogazione del divorzio. Stessi numeri plebiscitari e stessa bocciatura per quella energica spregiudicatezza, che solo chi ha – non fosse altro – per ragioni geografiche frequentato la Toscana rurale può comprendere fino in fondo. Facile sarebbe, quindi, rammentare oggi Pietro Nenni e le sue parole di allora: hanno voluto contarsi, hanno perso. Ma l’analisi del vecchio socialista, sempre ficcante, è inevitabilmente parziale.

La vittoria del “No” è innanzitutto la storia di un errore, ovvero del tentativo di trovare in un referendum costituzionale l’investitura popolare mancante. Ha perso Matteo Renzi, ma prima ancora ha perso un modello di leadership che, come uno Zeman qualsiasi, ha messo in campo sempre e soltanto un solo schema, quello dell’uno contro tutti. Ma questo ormai è un fatto e, soprattutto, è il passato, perché dopo le dimissioni di Renzi le luci dei riflettori si accendono, inevitabilmente, non più solo sulle sue mosse personali, ma, soprattutto, sul Partito Democratico. Pd che resta il partito di maggioranza in Parlamento e dalle cui scelte immancabilmente dipenderanno le prossime mosse del capo dello Stato.

Ecco il rischio di un secondo, tragico, errore. È certo umanamente comprensibile il Renzi sconfitto che getta la palla al di là della rete – ai vincenti del “No” oneri ed onori ha detto l’altra sera – concludendo, con innegabile dignità, il suo percorso da Presidente del Consiglio. Nessuno, di contro, comprenderebbe un Pd che non si assumesse le proprie responsabilità, a cominciare dalla prossima Legge di stabilità. I segnali, in vista della Direzione convocata a brevissimo, non paiono positivi ad ascoltare le parole del capogruppo del Pd alla Camera dei deputati, Ettore Rosato: “Non si ricuce più, temo che la scissione sia nelle cose e che i gruppi parlamentari si spaccheranno”, pare abbia affermato. Un calcolo assai rischioso e che sconta molte variabili a cominciare dalla stabilità delle maggioranze interne di un partito sulla quale, dopo la vicenda dei 101 e quella del Governo Letta, neppure il più spericolato dei giocatori di poker farebbe grande affidamento (il silenzio del leader di Area Dem, Dario Franceschini, è soltanto una nube passeggera?). Ma soprattutto il rischio di una scelta potenzialmente devastante; la tentazione di portarsi a casa il pallone dopo la sconfitta o un percorso di responsabilità che preveda l’appoggio ad un Governo istituzionale, la legge di stabilità e una nuova legge elettorale prima di ridare, finalmente, la parola agli elettori.

Propendo senza tentennamenti per la seconda soluzione e chiedo quanto gonfierebbe le vele del populismo lasciarsi andare a tentazioni sfasciste? Quanto costerebbe in termini di consensi? Soprattutto, quanto costerebbe al Paese? Ben prima di pensare a quello che accadrà nel Pd evocando improbabili scissioni, c’è quindi da assumere una decisione assai più profonda sulla strategia politica del partito stesso. Affrontare le urne col malcelato obiettivo di dimostrare l’inesistenza di una leadership alternativa, barricandosi come un novello Nikita Krusciov spaccherebbe partito e Paese. Evocando l’antico adagio secondo il quale errare è umano e perseverare è diabolico sarebbe errore ancor più grave di quello, originario, che ci ha condotto in questo cul de sac.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02