Il prossimo 4 dicembre gli italiani andranno a votare al referendum per respingere o approvare la riforma costituzionale perché il testo di legge è stato approvato a maggioranza ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera. Meglio votare “No” sostanzialmente per tre motivi.
Il primo motivo è che si tratta di una riforma confusa che trasforma la Costituzione in un pasticcio. Non rende più snello l’iter normativo, come la propaganda del “Sì” cerca di propinare agli italiani, ma lo complica con un bicameralismo imperfetto in cui le competenze del Senato non sono chiare. I costituzionalisti hanno contato più di dieci modalità diverse con cui si produrranno norme sulla varie materie, con un ruolo del Senato ambiguo e fonte inesauribile di contenzioso presso la Corte costituzionale. Oggi con il bicameralismo perfetto l’iter di approvazione di una legge di iniziativa governativa (la quasi totalità delle leggi, ormai) non supera i sei mesi, inoltre l’istituto del disegno di legge ad approvazione “a data certa” con ogni probabilità si trasformerà in un boomerang di termini oltrepassati e quindi lavoro inutile.
Il secondo motivo è che si tratta di una riforma centralista. Punta infatti a riportare presso lo Stato centrale molte delle competenze che erano state assegnate alle Regioni, pretendendo di compensare questa privazione con l’istituzione del Senato composto da consiglieri regionali. Nel frattempo non viene abolita la Conferenza Stato-Regioni, generando una tripartizione tra Governo centralista, Senato delle Regioni e Conferenza Stato-Regioni. Tutto ciò produrrà ulteriore confusione e conflitto continuo, risolto con ogni probabilità da logiche centraliste in contraddizione con il principio di sussidiarietà.
Il terzo motivo è che si tratta di una riforma priva di contrappesi reali, quindi pericolosa. Un solo partito potrebbe di fatto eleggersi il Presidente della Repubblica, i giudici della Corte costituzionale, i membri del Consiglio superiore della magistratura, senza dimenticare il dominio della Rai. Qui ovviamente pesa la questione dell’Italicum, che non è oggetto di referendum. A tal proposito vorrei ricordare che l’Italicum è pienamente in vigore dal luglio scorso, nonostante non abbia risolto i due problemi emersi dalla bocciatura del Porcellum da parte della Consulta (sentenza 1/2014, ndr): il premio di maggioranza considerato abnorme e il meccanismo della lista bloccata che non permette ai cittadini di scegliersi i parlamentari. Con l’Italicum si crea la possibilità di costruire un sistema nel quale un partito con poco più del 20 per cento dei consensi del corpo elettorale può ottenere un potere immenso e di fatto incontrastabile. Perché? Il premio di maggioranza è sempre molto ampio (anche se viene assegnato dopo un ballottaggio tra le due principali liste del primo turno, sempre che nessuna abbia superato il 40 per cento dei voti) e la stragrande maggioranza dei parlamentari viene eletta con i meccanismi del capolista bloccato, scelto dunque dalle segreterie dei partiti, mentre solo una parte minoritaria dei deputati verrebbe eletta tramite preferenze. Questa legge elettorale è drammaticamente antidemocratica. Non va cambiata, va cancellata. Abbiamo il dovere di garantire all’Italia una legge elettorale che permetta la rappresentatività. La governabilità è un falso problema in quanto frutto di accordi politici. I tedeschi, ad esempio, hanno avuto col proporzionale dieci governi in sessant’anni.
Tornando alla modifica costituzionale, la strategia del “comportiamoci bene, votiamo sì, perché altrimenti finiamo in miseria” non è leale. Uomini delle istituzioni che si fanno complici delle banche d’affari vengono meno al patto di libertà che li lega al popolo e comunque, a smentire “Goldman Sachs”, ci ha pensato in anticipo il commissario europeo Valdis Dombrovskis che ha risposto alla richiesta di un suo parere sul nesso referendum e tenuta di banche e conti pubblici dicendo: “Non prendiamo decisioni sulla base di queste argomentazioni”, e tanti saluti alla Meb propaganda (Maria Elena Boschi, ndr) di sapore intimidatorio stile “dopo di noi, il diluvio”.
Il mito del cambiamento per evitare l’immobilismo non è leale e nasconde la più cruda realtà del partito-Stato che si impossessa totalmente delle istituzioni, danneggia i rapporti corretti tra poteri dello Stato, nomina senza ostacoli i membri della Corte costituzionale e del Csm. La presunta semplificazione dell’attività legislativa passa dalle nove parole del vecchio articolo 70 alle 492 dell’attuale, con il chiaro intento di rendere impossibile la trasparenza e la linearità del processo legislativo in modo da lasciare il Governo padrone del campo. La Costituzione non è una legge qualsiasi. Essa esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. Questo è stato lo spirito costituente che ha caratterizzato i lavori della prima stesura della nostra Carta. Poi durante le legislature sono state fatte anche ordinarie, puntuali e non rare modifiche. Sarebbe importante ripartire da un’assemblea costituente, dove il Governo sia protagonista di un’intesa politica e non di una forzatura legata ad interessi del momento.
Matteo Renzi va dicendo ovunque che chi vota “No” vuole tenersi l’esistente: certo l’esistente è pessimo, ma non per colpa dei meccanismi costituzionali, alcuni dei quali arrugginiti, altri pletorici, altri ancora inutilmente costosi. Ma nessuno di questi argomenti può giustificare un voto favorevole ad una pessima riforma che riduce gravemente gli spazi di democrazia e libertà. “Si vota non prima del 2018, comunque vada il referendum”, ha detto a fine agosto il capo del Governo. È un amo cui far abboccare la minoranza Pd e i parlamentari alla deriva di questa legislatura. Renzi è abile, ma senza visione. Fino al referendum prometterà mari e monti. Poi correrà al voto perché gli impegni assunti sono sproporzionati rispetto alla tenuta dei conti pubblici, già gravemente compromessi da un Governo clientelare che ai 500 euro ai diciottenni per andare al cinema ha aggiunto la figura degli insegnanti senza alunni della “Buona Scuola”. La modifica costituzionale rischia di portarci sulle soglie del conflitto perché si sta sottovalutando troppo il popolo italiano, a cui libertà e democrazia sono care ancor più dei soldi e del lavoro.
I padri costituenti, preoccupati dalle derive autoritarie del fascismo, erano stati molto scrupolosi nella preparazione delle regole per le modifiche della Carta fondamentale. Le prerogative per aggiornare e cambiare il testo costituzionale sono esclusivamente del Parlamento. Il Governo non può, e non deve, prendere parte al dibattito e non può, e non deve, partecipare ad una competizione referendaria. Il presidente del Consiglio ha esplicitamente detto che il referendum è un test per la sua permanenza al Governo. Una siffatta dichiarazione molto pericolosa basta da sola a confermare una dose notevole di “autoritarismo” e di dispregio della dialettica costituzionale. Il processo costituente è materia del Parlamento e non del Governo, il quale per il passato non ha mai “proposto” modifiche alla Costituzione né ha dato pareri su emendamenti che sarebbero stati pur sempre “di parte”. Piero Calamandrei scriveva nel 1947: “Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del Governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il Governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana”.
Un principio - quello dell’estraneità del Governo alla revisioni costituzionali - che è funzionale ad un regime parlamentare come il nostro, che è stato rispettato per quarantasette anni, (infatti quando si è discusso di riforme costituzionali i banchi del Governo sono rimasti sempre vuoti per rispetto al Parlamento), fino al tentativo di riforma costituzionale di Silvio Berlusconi (2005), che prevedeva il così detto “premierato assoluto” bocciato dal referendum del 2006; seguito dal tentativo di riforma costituzionale del Governo Letta (2013), che pretendeva, con un “crono-programma” alla mano, di derogare alle norme inderogabili dell’articolo 138 della Costituzione; fino all’attuale riforma costituzionale. Non può dirsi che questa riforma fosse legittimata da quei due precedenti, perché l’una fu bocciata dal popolo, l’altra naufragò strada facendo.
La riforma Renzi, come le due precedenti, è un atto di indirizzo politico di maggioranza in contrasto coi principi ricordati. “Non si possono dunque sfidare gli elettori sul piano “personale” ed affermare che nel caso di voto negativo di quelle norme il Presidente del Consiglio si dimette. Il Governo se non sfiduciato ha il dovere di governare, di operare per il bene comune dei cittadini”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02