Congresso radicale:   non serve litigare

Iniziato con un articolo di Adriano Sofri sulla necessità di un Congresso e sulla “roba” (archivio, frequenze radio, ecc.), in due mesi il dibattito sul futuro dei radicali ha mutato di segno. Anzi si è ribaltato: l’eredità materiale di Marco Pannella ha giustamente ceduto il passo al tema del destino di una storia politica.

Del resto – come chiarito – decisioni e affidamenti stabiliti in vista di una successione non sono oggetto di confronto politico, anche se dispiacciono si possono purtroppo solo rispettare o tutt'al più contestare per altre vie. Sicché la meritoria convocazione di un congresso – in luogo che più evocativo della “alterità” radicale non poteva essere – ha acceso un faro sul resto: sulle scelte immediate di una famiglia politica. Ma è qui che il radicale che sono è rimasto interdetto.

Sarà che il partito conosciuto quando ne ero segretario era altro (non dico migliore, altro) dall’attuale, o forse tre lustri spesi a fare il contadino hanno attutito il mio comprendonio. Sta di fatto che la durezza e la probabile irrevocabilità dello scontro interno per me è sconcertante. Non solo per la pochezza delle sue ragioni: soprattutto per l’esiguità della posta in gioco. Che senso e che utilità ha gettare molti di noi nello sconcerto, quando alla vigilia del congresso sentiamo dire che “ora è in causa e va difeso il brand del nome Radicali”, che taluno vorrebbe confiscare a danno di altri? Stupisce che ciò sia proclamato ora che il peso e il “patrimonio” del nome Radicali sia a tal punto ridotto al lumicino da rendere l’indicazione che fu di Marco Pannella e della mozione che sciolse il Pr come partito elettorale italiano non solo una “splendida intuizione” - come per anni ripetuto - ma una ovvia, necessaria medicina per non perire nelle ristrettezze e fra i litigi.

“I radicali in Italia devono costruire nuovi ed altri soggetti politici con interlocutori altri e diversi da loro”, recita la lezione pannelliana che ci fece sopprimere un partito del 3 per cento, non considerato più adatto all’ambizione di una classe politica dirigente determinata a cambiare davvero il Paese e non a sopravvivere a se stessa.

Questo fu detto, questo fu deciso. E questo a mio avviso è più che mai attuale: o i radicali sanno davvero affrontare il mare aperto della costruzione di nuovi strumenti politici con obiettivi alti e ambiziosi, o se si rinchiudono in inesistenti “averi” hanno già accettato il proprio declino. Il brand Radicali, ammesso che non sia di già insidiato da ben più temibili radicali islamici, è ormai e di fatto il nome esclusivo di un partito che ha compiuto e maturato la propria scelta transnazionale, nonché di irreversibile abbandono dell’agone elettorale italiano. Si vuole forse fare marcia indietro? Si intende ridiscutere il divieto di chiamare Partito Radicale o Radicali una qualsivoglia formazione elettorale italiana? Personalmente ritengo anch’io che in tal modo si rinnegherebbe di fatto (come se niente fu detto e quasi si fosse scherzato) la scelta transnazionale compiuta. Ma soprattutto: lo si farebbe per cosa e perché? Per un patrimonio che visibilmente, tangibilmente più non esiste? Per difendere la realtà virtuale di un 1 per cento e l’inevitabile, conseguente ruolo di partitino satellite?

Ecco: è questo ciò che stupisce. È il clima di scontro intorno al nulla che induce un nuovo (antico) iscritto quale sono a sperare che il peggio non si compia. Io infatti credo, voglio credere, che il peggio lo si possa evitare con due passi unilaterali e collettivi molto semplici, di puro rispetto delle scelte compiute e delle persone che le hanno compiute: 1) evitare di colpirsi a vicenda in nome di “beni radicali” il cui affidamento non è stato deciso da altri che dal suo titolare; 2) rispettare la decisione di fondo assunta da anni, in forza della quale la scelta transnazionale del Pr fa sì che il nome Radicale sia spendibile per lotte, iniziative, campagne ma non per una formazione elettorale italiana.

Una volta messi al riparo questi due princìpi da ogni speculazione, sono convinto che i radicali sapranno trovare la strada più umile e forte per rilanciare insieme la loro sfida transnazionale e per costruire in Italia uno o più nuovi utensili politici, a prescindere da qualsiasi papà-partito e senza lottizzare sigle, nomi e brand del passato.

Chi scrive, proprio in ossequio a una mozione di scioglimento del Partito radicale italiano della quale fui primo firmatario, ha ad esempio in queste settimane promosso la “Marianna”, una formazione che dal prossimo 17 settembre inizia con una manifestazione a Roma il proprio percorso verso la Convenzione nazionale. Per ciò che vale questo piccolo utensile politico è a disposizione di chiunque fra i radicali voglia venire a fare, mutare, plasmare con noi la Marianna, per trasformare questa “democrazia reale” italiana . Ma altre e diverse forme di impegno politico italiano possono ovviamente esistere e proliferare, purché appunto si operi in un quadro di rispetto reale, sostanziale delle scelte compiute e dei princìpi che ne sono alla base. Al di fuori dei quali si scorgono solo litigi furibondi intorno al nulla e lacerazioni irreversibili.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:05