È cominciata la nuova guerra di Libia. Anche se non si deve dire. Sul paese nordafricano sfrecciano cacciabombardieri la cui identità, al momento, resta segreta. Forze speciali, probabilmente italiane, presidiano il complesso petrolifero di Mellitah, di cui Eni è comproprietaria, mentre unità della nostra Marina Militare incrociano al largo delle acque territoriali libiche. L’obiettivo prioritario è fermare l’avanzata dello Stato islamico. Non bisogna spaventarsi per questa evoluzione della crisi. Anzi, c’è da esserne contenti perché prima si mette mano all’annientamento dei tagliagole, giunti troppo vicini a noi, e meglio sarà per tutti. Tuttavia, bisogna capire come Matteo Renzi intenda muoversi. Finora abbiamo assistito alla patetica retorica del “no-combat” italiano. Ma adesso non si può scherzare perché è in ballo la sicurezza dei nostri confini meridionali.
Dalla sciagurata cacciata di Gheddafi la diplomazia italiana, un tempo molto ascoltata tra le sabbie e nelle oasi del deserto libico, si è incartata nel rompicapo della guerra civile provocata dai clan tribali, cercando di conciliare l’inconciliabile. È stata perseguita con ostinazione la strada dell’accordo di pace sul quale però nessuno sembra scommettere, a cominciare dalle parti in guerra che, alla vigilia dell’insediamento del governo di unità nazionale, continuano a combattersi senza esclusione di colpi. Per rubare meriti che non ha, il nostro governo parla di successo della via negoziale eppure dimentica di aver lasciato fuori dagli accordi pezzi importanti dei vecchi apparati di potere, i quali a loro volta, per contrastare la marginalizzazione, stanno tornando a farsi pericolosi. I nostri media hanno trascurato di evidenziare, a proposito dell’avanzata dell’Is, un particolare molto significativo.
Sirte, che ha dato i natali alla famiglia Gheddafi, è stata proclamata provincia del califfato di Al- Baghdadi. Il fatto di aver tenuto il potente clan fuori dal processo di ricostruzione della nuova Libia ha spinto i sodali del vecchio regime ad abbracciare la causa del radicalismo islamista per mere ragioni di convenienza. Qualcosa di simile a quello che è accaduto in Iraq, dove le forze fedeli al deposto Saddam Hussein, epurate dopo l’uccisione del dittatore, sono diventate la struttura portante del nascente Stato islamico nei territori a cavallo tra l’Iraq e la Siria. In Libia si sta rischiando che soldataglie di tagliagole vengano innervate da forze militari esperte, addestrate nelle migliori scuole militari d’Europa, in grado di combattere una guerra con criteri professionali ben più efficaci della cieca violenza delle orde barbariche. Se questo scenario fosse confermato, il patto tra le milizie per la fine della guerra civile sarebbe una foglia di fico poggiata su un barile di polvere esplosiva.
I nostri cugini d’Oltralpe lo hanno capito e hanno deciso di non indugiare con il ping-pong diplomatico. Francesi e inglesi sono sul punto di passare all’azione nella consapevolezza che nessuna pace sarà possibile fin quando tutti i libici non sentiranno sulla propria pelle il peso della forza occidentale. E l’Italia? Fu un errore colossale consentire che, nel 2011, Nicolas Sarkozy ci soffiasse la Libia. Oggi sarebbe catastrofico se il pavido Renzi restasse a guardare mentre le truppe dell’asse franco-britannico procedono, da sole, a normalizzare il paese nord-africano. Potremmo dire addio ai nostri interessi nell’area del Mediterraneo. Se al signor Renzi sta bene che l’Italia diventi l’ultima ruota del carro occidentale, alla maggioranza degli italiani una simile prospettiva provoca i crampi allo stomaco. Stare in prima linea, anche militarmente, nella soluzione della crisi libica non è un’opzione come un’altra: è un imperativo categorico dettato dalla ragione geopolitica. E dalla storia di una nazione.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01