Oggi è il “Giorno della memoria”. Ricordare la Shoah è buona cosa. Deve servire da ammonimento alle nuove generazioni perché comprendano il senso di un insegnamento di portata universale: la volontà di potenza di un popolo, se non debitamente contrastata dentro e fuori dei suoi confini, può renderlo cieco e pericoloso, come pericolosi e ciechi rese i tedeschi tra il 1933 e il 1945.
Tuttavia, il “27 gennaio” si è trasformato in un gigantesco rito apotropaico ad uso e consumo dell’occidente democratico che deve allontanare da sé il sospetto di non aver desiderato sradicare le pulsioni antisemite dagli interstizi culturali, valoriali e sociali delle proprie comunità. D’altro canto, nell’oceano di frasi di circostanza che questa giornata si concede, altrettanta ipocrisia restituisce. Una volta l’anno si finge di essere tutti figli dei fantasmi di Auschwitz-Birkenau. Assisteremo ai soliti film, ai soliti dibattiti e alla solita dannata retorica dei politici. Se fossimo persone serie faremmo meglio a tacere, a vivere in silenzio una giornata pensando al tempo nel quale la nostra civiltà decise di andare indietro, abbandonandosi carnalmente alle divinità dell’odio primordiale. Nel 1945 il reich tedesco fu sconfitto, l’antisemitismo, invece, è sopravvissuto uscendo indenne dall’aula di giustizia di Norimberga. Basta aprire i giornali per farsene un’idea.
L’ostilità dei Paesi del Vecchio Continente verso lo Stato d’Israele è un qualcosa di impalpabile che travalica ogni considerazione di tipo geopolitico. La sua natura è razziale, c’è poco da fare. Lo si è visto anche nei recenti fatti di Parigi. L’Europa unita ha indossato la maglietta del “siamo tutti Charlie”, nessuno ha pensato di aggiungere: siamo anche un po’ kosher. Appena la settimana scorsa dodici cittadini israeliani sono stati accoltellati da un terrorista palestinese su un autobus a Tel Aviv. Non ci è parso che le autorità europee si siano stracciate le vesti per l’accaduto. Cosa che sanno fare molto bene quando è l’apparato di sicurezza di Gerusalemme a reagire in difesa dei suoi connazionali. In Medi Oriente non è cambiato granché dal ‘45. Vi sono masse di arabi, fomentate dai propri governi, che sarebbero prontissime a fare agli ebrei quel che fecero i nazisti tedeschi. Se non lo fanno è perché, a differenza del passato, gli ebrei d’Israele hanno imparato a difendersi. E meno male, altrimenti oggi sarebbero stati cancellati definitivamente dalla storia sotto lo sguardo indifferente del Vecchio Continente.
Se la nostra Europa non fosse nelle proprie cavità carsiche ancora antisemita, potrebbe accettare senza battere ciglio che alcuni paesi arabi, considerati alleati strategici, continuino a insegnare l’odio contro gli ebrei ai propri giovani? Magari anche soltanto negando il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele? Noi europei abbiamo puntualmente voltato la faccia dall’altra parte quando nel mondo si sono compiute azioni di antisemitismo. In tutti i campi, anche nello sport. Nella gran parte dei paesi mediorientali gli atleti israeliani non possono essere rappresentati dalla propria bandiera nazionale perché la sua esposizione è severamente vietata. Non è mai accaduto che qualcuno del comitato olimpico internazionale dicesse a uno solo di quei despoti: noi qui non gareggiamo perché la vostra ostilità preconcetta verso Israele contrasta con i principi di fratellanza e di pace connaturati alla pratica dello sport.
Allora, facciamoci pure questa giornata d’immersione della coscienza collettiva nelle acque rigenerative della memoria, ma sarebbe molto più salutare per tutti se a contrastare l’antisemitismo pensassimo nei restanti 364 giorni dell’anno che ci separano dal prossimo “27 gennaio”. Perché il rischio che corriamo non è quello di dimenticare, ma di fingere di ricordare. Perché, in fondo, le cose stanno proprio come le ha spiegate Hannah Arendt: “Non si può ricordare qualche cosa a cui non si è pensato e di cui non si è parlato con se stessi”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09