Qualcosa da dire<br/>a proposito di Giustizia

Di riforma della giustizia era un po’ che non si sentiva parlare. Eppure l’argomento non dovrebbe essere accantonato. Il fatto che l’Italia non sia dotata di un sistema giudiziario efficiente rappresenta un grave handicap per gli investitori stranieri. Il deficit di giustizia ci colloca al di sotto delle altre democrazie occidentali.

Già in passato l’Unione Europea ha condannato il nostro Paese per l’eccessiva lungaggine dei processi civili e penali. Nel 2009 era intervenuto il Consiglio d’Europa a rimarcare la necessità di adottare misure legislative ad hoc per abbreviare la durata dei procedimenti. Finora è stato tutto inutile. La Giustizia in Italia è tabù. Ora Matteo Renzi, nel suo programma di Governo, non ha mancato di citarla tra le anomalie italiane a cui porre riparo. In realtà, ha fatto di più. Ha promesso entro giugno prossimo un piano di riforma organica che, sono sue parole, “tenga tutto dentro”. Si presume che volesse intendere che saranno riordinate tutte le branche nelle quali si articola la giurisdizione italiana. Vogliamo sperare che il Premier dica il vero e non stia semplicemente vendendo fumo. Tuttavia, i dubbi sulla realizzazione dell’impresa restano. Finora è stato possibile impedire qualsiasi apertura al fronte riformista perché si è usata la persona di Berlusconi come “scudo umano” dietro al quale occultare la volontà del sistema giudiziario di rifiutare un drastico ridimensionamento del potere conquistato negli ultimi vent’anni.

Non è un caso se il tema del ritorno alla purezza della giurisdizione sia vissuto dalla corporazione dei magistrati come fattore ostile. Nel tempo storico della “Seconda Repubblica” accennare soltanto a una riforma della giustizia veniva tradotto nel linguaggio dei giustizialisti, secondo un bizzarro automatismo, in un favore personale concesso al leader di Forza Italia. Ha ragione il nostro direttore nel sostenere che il silenzio sull’argomento oggi imposto dalla magistratura al leader del centrodestra, come condizione per l’ottenimento della misura dei servizi sociali, può trasformarsi in un’opportunità unica per trattare nelle sedi istituzionali competenti la riforma della giustizia. Le forze politiche, di destra e di sinistra, non hanno più alibi.

Comunque, la strada della revisione normativa, di là dai facili ottimismi della propaganda politica, non sarà agevole, giacché per poter accedere a una nuova disciplina bisogna preventivamente scardinare il vigente sistema che ha condizionato lo svolgimento della vita democratica del Paese. In realtà da “tangentopoli” in poi il potere giurisdizionale ha tracimato oltre i suoi confini e, grazie all’insipienza degli altri poteri: quello Esecutivo e quello Legislativo, esso ha provveduto ad occupare spazi decisivi nelle meccaniche di funzionamento dell’apparato statuale. Penserete a una chiacchiera da bar. Non è così. Questa tesi è stata confermata ai massimi livelli. Fu il compianto presidente Francesco Cossiga a dire: “Non credo alla vulgata che identifica Tangentopoli in una “moderna rivoluzione istituzionale” (la definizione è dell’Economist). Piuttosto credo che si sia trattato di un “Colpo di Stato”. Legale. Nel senso che un ordine autonomo dello Stato, indipendente ma non sovrano, ha surrogato il potere sovrano del Parlamento, ha prevaricato altri poteri, ha modificato gli equilibri della vita politica democratica, decretato la morte dei partiti storici, usando come arma di giudizio storico e politico l’indagine giudiziaria”.

Il problema centrale è tutto qui. A un certo punto della storia repubblicana l’equilibrio fondato sulla separazione dei poteri è saltato. Il vulnus si è provocato a seguito della sciagurata decisione di un Parlamento imbelle, nel 1993, di abrogare l’istituto dell’immunità parlamentare. L’art. 68 della Costituzione, in origine, prevedeva che il parlamentare non potesse essere sottoposto a procedimento penale senza l’autorizzazione della Camera di appertenenza. La “ratio” della norma era ispirata al principio che il parlamentare non dovesse essere condizionato nell’esercizio delle sue funzioni da minacce di alcun genere che potessero provenirgli da terzi, quindi anche da espressioni di altri poteri. Il legislatore costituente, dunque, aveva edificato una solida impalcatura a sostegno delle dinamiche che comportano interazioni tra i poteri, giungendo a proteggere tutti con norme perfettamente bilanciate. La paura di essere travolti dallo sdegno popolare per quello che la magistratura andava scoprendo sugli illeciti compiuti dai partiti, spinse pavidi rappresentanti della nazione a eliminare la pietra d’angolo che garantiva stabilità all’intero edificio istituzionale. Tolto quel mattone, è venuto giù tutto l’impianto. Ad aggravare la perdita d’equilibrio si aggiunse la circostanza che i medesimi politici, i quali avevano votato la soppressione dell’autorizzazione a procedere, non ebbero sufficiente buon senso per modificare, a fini di bilanciamento del sistema delle garanzie, la norma costituzionale che pone in capo al pubblico ministero (magistrato ordinario) l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 C.).

L’apertura della falla nel sistema spinse i magistrati ad assumere il ruolo di guardiani di un’astratta “morale repubblicana” alla quale subordinare anche l’esercizio della giurisdizione. È la ricostruzione lucidissima di Luciano Violante, che ci conferma la mutazione genetica della funzione del magistrato nel nuovo contesto determinatosi a seguito dei fatti del ‘92. “È la magistratura ordinaria quella che ha trainato la corsa della giurisdizione a occupare gli spazi dagli altri lasciati vacanti”. Violante lo dice in un suo scritto apparso sulla rivista ”Micromega” (pag. 52, vol. 5/93). La lunga marcia di riposizionamento strategico del potere giudiziario nell’ambito dell’impianto costituzionale dello Stato, si compie con quella che il magistrato Giancarlo Caselli definisce la vittoria della cultura giuridica progressista: “Di fronte a vicende come tangentopoli, o come l’impegno anticamorra a Napoli, o come l’impegno antimafia a Milano, in Toscana e in Sicilia, non si può non partire da una posizione di orgogliosa rivendicazione. Vale a dire che tali momenti giurisdizionali non esisterebbero, determinate conquiste della cultura della giurisdizione non sarebbero una realtà, certi avamposti di tutela della democrazia sarebbero impensabili, se per lunghi anni la cultura giuridica progressista (in particolare i magistrati democratici dentro e fuori Magistratura Democratica) non si fosse ostinata a porne e riproporne – anche nei momenti più difficili – le indispensabili premesse ideali…”. Sono le sue illuminanti parole (da “Micromega”, pag. 15, vol. 5/93).

Orbene, poste tali premesse come si può ritenere possibile che la riforma possa viaggiare sulle ali di una farfalla? Se prima non si ricostituiscono gli equilibri corretti tra poteri sovrani separati, davvero si pensa di riportare il sistema giudiziario nell’alveo della giurisdizione? La “sovraesposizione” mediatica di cui una parte della magistratura ha goduto per aver esercitato in questi anni un improprio ruolo di supplenza, non può essere considerata causa del vulnus, piuttosto ne costituisce il sintomo più evidente. Quindi l’obiettivo prioritario è di riportare il sistema giudiziario alla cultura della giurisdizione, lasciando ad altri la funzione etica propria dei fautori della “cultura della legalità”. In uno Stato di Diritto, non sono i giudici che devono contrapporsi alla cultura dell’illegalità, non spetta al giudice indicare al cittadino la retta via. Non spetta al giudice stabilire chi sia più o meno degno di ricoprire una carica pubblica. Non spetta al magistrato perseguire finalità aliene al criterio di giustizia determinato dall’applicazione fedele della legge. Lo spirito della norma costituzionale che assoggetta il giudice esclusivamente alla Legge (art. 101. 2 co. Costituzione), intende esaltare i valori di imparzialità e di serenità connessi alla funzione dell’umano giudicare che mira alla ricerca della verità, ma non di una qualsiasi verità. Al giudice compete di accertare la verità processuale.

Tale è il senso profondo della giurisdizione perché essa permanga nel dominio dell’umano e non debordi nella sfera del divino. Per quanto queste considerazioni possano risultare dissonanti con il “sentire” dell’opinione pubblica abituata a vedere la magistratura impegnata “a tutto campo” in nome del principio etico del bene, pur tuttavia bisogna farsene una ragione del fatto che i giudici ritornino a parlare esclusivamente attraverso i soli atti e le procedure che la Legge consente loro. Soprattutto smettano di agire la politica attraverso lo strumento dell’indagine giudiziaria. Questo è ciò che lo spirito fondante dello Stato di Diritto richiede all’ordine autonomo della magistratura.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 16:59