L'hanno pregato di accettare la rielezione al Quirinale per sbloccare l'impasse da loro provocato, e ora Napolitano inchioda i partiti – Pd in primis – alle loro responsabilità. Niente governi tecnici, né “del presidente” (con sole figure istituzionali a risparmiargli l'imbarazzo di dover collaborare con il “nemico”), né formule ambigue, tipo “a bassa intensità politica”. Con l'incarico di formare il nuovo governo a Enrico Letta, e non ad altre personalità (come per esempio Giuliano Amato), il Pd è costretto al “governissimo”, cioè un governo con ministri politici, i suoi esponenti insieme a quelli di Pdl e Scelta civica, l'ipotesi che all'indomani delle elezioni, nonostante la realtà impietosa dei numeri, la direzione del partito aveva categoricamente escluso per ben due volte.
Ebbene, il presidente ha chiarito che quella delle larghe intese, che si apre oggi, è la «sola prospettiva possibile», che «non ha alternativa» (se non il voto subito). Per questo, confida nel successo del tentativo di Letta – chi dovesse affossarlo si assumerebbe una grave responsabilità dinanzi al paese – e confida che tutte le forze politiche, ma anche i mezzi di informazione, «cooperino per favorire il massimo di distensione piuttosto che rinfocolare vecchie tensioni». Ma anche per il Pdl l'incarico a Letta rappresenta una sfida non da poco. Berlusconi ha fin dall'inizio, all'indomani del voto, chiesto con forza un governo politico, forte, duraturo, non un governicchio «semibalneare», utile solo al Pd per riprendersi dalle ultime batoste e dalla crisi interna.
E' questo, ora, il rischio maggiore per il Pdl: trovarsi costretto a concedere ai suoi avversari una tregua, una sorta di tempi supplementari, in vista degli esami di riparazione, senza ottenere in cambio risultati politici concreti (l'abolizione dell'Imu, per esempio, cavallo di battaglia elettorale, o il presidenzialismo). Nell'autunno del 2011 Napolitano ha ritenuto a tal punto rischioso per il paese il ritorno alle urne, e talmente impreparato il centrosinistra a governare, da costruire l'ipotesi Monti, ma di fatto preparando la strada per una vittoria dell'alleanza guidata da Bersani e per una scontata successione al Colle. E' andata molto diversamente, e tutti sappiamo cosa non ha funzionato, ma in fondo il governo Letta può essere visto come un secondo tentativo, sebbene in altre forme, di rianimare il centrosinistra, di costringerlo a risolvere le proprie contraddizioni preparandolo al governo del paese. Letta nelle sue prime dichiarazioni ha parlato di un governo «di servizio al paese», di provvedimenti per il lavoro e l'impresa, e di riforme costituzionali: la riduzione dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, una nuova legge elettorale. «O si ritrova credibilità tutti, e tutti insieme, o non si trovano strumenti per risolvere i problemi», è stato il suo appello alle forze politiche.
«Parleremo con tutti, Pdl in primis. Ma questo governo non nascerà a tutti i costi, nascerà solo se ci saranno le condizioni». E le condizioni del Pdl, ancor prima dell'ufficializzazione dell'incarico, le ha ricordate Alfano, lanciando un vero e proprio avvertimento: «Non ci sarà un nuovo caso Marini, non daremo il sostegno a uno di loro cui loro non daranno un sostegno reale, visibile, con nomi che rendano evidente questo sostegno e con un programma fiscale chiarissimo ed inequivocabile». Dunque, ministri Pd-Pdl insieme, ma che siano nomi di peso, i “big”, e contenuti «irrinunciabili». Il Pdl alza la posta, cerca di rendere più costosa possibile per il Pd un'eventuale esperienza di governo di larghe intese, con un occhio ai sondaggi che danno il centrodestra in crescita e in netto vantaggio, quindi con la tentazione del voto. Ma è anche vero che sarà difficile, a questo punto, dopo aver rieletto Napolitano, smarcarsi dal tentativo Letta, almeno quanto difficile però per il Pd irrigidirsi, rischiando il ritorno al voto e, quindi, un bagno di sangue, per ritrovarsi poi nella stessa prospettiva di oggi, solo senza premio di maggioranza alla Camera. Il presidente Napolitano ha spiegato di aver scelto Letta perché è «giovane – molto per gli standard italiani – ma ha già accumulato esperienza parlamentare, di governo, e internazionale». Amato era probabilmente la personalità che giudicava più idonea per competenza, esperienza parlamentare e istituzionale, doti da mediatore e notorietà in contesti internazionali, ma non mancavano controindicazioni politiche che il presidente aveva ben presenti e che nel calcolo costi-benefici hanno finito per prevalere.
Innanzitutto, la sua nomina sarebbe apparsa come un dito in entrambi gli occhi dell'opinione pubblica (di centrosinistra ma anche – e forse più – di centrodestra), un ritorno al passato (al '92, quando Amato fu premier e Napolitano presidente della Camera), e infine avrebbe dato al nuovo governo un profilo troppo simile al precedente, sonoramente bocciato dagli elettori. Troppo tecnico, troppo bassa la “densità politica”, mentre ad avviso di Napolitano (in questo in sintonia con Berlusconi), stavolta serve il pieno coinvolgimento della politica, dei partiti. Meno “divisivo” dovrebbe essere per il Pd (ma il condizionale è d'obbligo) il nome di Letta, a favore del quale ha giocato anche il fattore generazionale: dopo la conferma di un 88enne al Quirinale, almeno con la nomina del premier il presidente ha voluto mandare un messaggio di freschezza (anagraficamente, s'intende). Corretti i ragionamenti che il quirinalista del Corriere Marzio Breda ha attribuito a Napolitano, descritto come «travagliato tra la necessità di avere esperienza e competenza e il bisogno di dare un segnale di novità e cambiamento al paese», sbagliate tuttavia le sue conclusioni («ormai tutto sembra chiaro: si va verso un incarico pieno a Giuliano Amato»), dettate forse da una preferenza del suo giornale. Quanto all'ipotesi Renzi, non è mai decollata oltre la bolla mediatica innescata da Orfini con una dichiarazione televisiva, nemmeno reiterata in direzione. La sua candidatura solo «un'effimera creazione politico-mediatica», l'ha definita Breda. Dunque, se anche Berlusconi non avesse visto di buon occhio Renzi a Palazzo Chigi, non ha avuto bisogno di porre veti. L'ipotesi non è mai davvero arrivata sul tavolo di Napolitano.
Ora Renzi cercherà di avvalorare la tesi del veto di Berlusconi per usarlo strumentalmente nella lotta interna al partito: «Per la prima volta gran parte del Pd si è ricompattata sul mio nome. Non era mai successo», ha dichiarato al Corriere (ma non sarebbe, piuttosto, un segnale di cui preoccuparsi?). «La sensazione – ha aggiunto – è che sia Berlusconi a non volermi. E questo forse aiuta a chiarire l'equivoco una volta per tutte». Preferenze sono state senz'altro espresse al capo dello Stato (Berlusconi avrebbe dato il suo ok sia su Amato che su Letta), così come Napolitano le ha senz'altro valutate, ma parlare di veri e propri “veti” e “candidature” da parte dei partiti in questa fase è fuori luogo. L'abbiamo sentito tutti il discorso di insediamento del presidente. Le sue parole che lasciavano spazio a veti o pretese sui nomi. Ha deciso lui, e pregandolo di accettare la rielezione i partiti si sono consegnati alle sue decisioni. Napolitano non ha sul serio considerato Renzi: perché a digiuno di esperienze di governo, ma soprattutto perché porta su di sé una carica politica esplosiva. Essendo uno dei leader che saranno direttamente impegnati nella futura, forse molto prossima campagna elettorale, avrebbe calamitato su di sé e sull'esecutivo tutte le tensioni interne al Pd, trasferendo sull'azione di governo il dibattito congressuale, un po' come accaduto per l'elezione del capo dello Stato. E anche in Berlusconi e nel Pdl, la sua nomina avrebbe accentuato la tendenza già forte a valutare l'azione di governo in termini di mera convenienza elettorale (avvantaggia o no Renzi?).
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:50