Il mito della casa pubblica e la fine della libertà privata

Dall’Europa a Engels, si fa strada l’idea che la casa debba rispondere all’ utilità sociale e non alla volontà dei proprietari

Il tema della casa è tornato prepotentemente al centro del dibattito politico. In Italia e altrove si sono moltiplicate le iniziative che vorrebbero affidare allo Stato il compito di disciplinare, calmierare o dirigere il mercato immobiliare: dalla richiesta di fissare per legge un tetto agli affitti – come avvenuto in Spagna con la Ley de Vivienda del 2023 – all’ipotesi, ventilata anche in Italia, di introdurre un’imposta straordinaria sugli immobili sfitti; fino alle politiche dell’Unione Europea che, con la direttiva sulle “case green”, impongono interventi strutturali e onerosi sugli edifici, trasformando la proprietà in un dovere gravoso più che in un diritto.

Un nuovo progetto nella medesima direzione è quella della Commissione speciale del Parlamento europeo sulla crisi abitativa, presieduta dall’eurodeputata Irene Tinagli. Tale organismo ha proposto una serie di misure ispirate alla visione secondo cui l’abitazione non sarebbe un bene economico da gestire liberamente, ma un servizio da subordinare a criteri di utilità sociale. In tale ottica, la presidente ha individuato come prioritaria la soddisfazione dei cosiddetti “bisogni abitativi”, criticando apertamente le locazioni brevi a fini turistici e definendo gli investimenti immobiliari come forme di “speculazione”. Le sue dichiarazioni prefigurano una possibile regolamentazione territoriale del settore, fondata sulla distinzione tra aree in cui sarà consentito affittare e altre in cui sarà vietato, con l’effetto concreto di restringere drasticamente la libertà di disporre del proprio immobile.

Anche l’efficientamento energetico degli edifici, tra gli obiettivi centrali della Commissione, viene presentato come prerequisito per l’accessibilità abitativa, senza tenere ovviamente conto dei costi e degli oneri ricadenti sui proprietari. Un’impostazione che, pur con toni moderni, ripropone vecchie ricette dirigiste, con il rischio reale di scoraggiare gli investimenti, ridurre l’offerta di alloggi e compromettere quella libertà economica che costituisce una condizione necessaria per rendere effettivo il diritto all’abitare.

In questo modo, la casa – da spazio di autonomia – tende sempre più a essere considerata oggetto di pianificazione pubblica.

Ebbene non vi è chi non veda come, dietro agli interventi sopra richiamati, si celi, in realtà, un’idea antica: che il problema dell’abitazione derivi da una libertà eccessiva concessa ai proprietari e che solo lo Stato – con leggi, vincoli, espropri e redistribuzioni – possa garantire equità. Non si tratta di una novità, ma di una visione che ha trovato espressione compiuta già nel pensiero politico del XIX secolo.

In particolare, due tra i più influenti pensatori del socialismo europeo, Friedrich Engels e Pierre-Joseph Proudhon, si sono confrontati animatamente sulla cosiddetta “questione dell’abitazione”. Mossi da un comune intento di “giustizia sociale”, hanno finito per proporre soluzioni che, seppur divergenti nel metodo, miravano entrambe a ridimensionare la sfera della libertà individuale e a svalutare il ruolo economico e civile della proprietà. Li accomunava, in fondo, un medesimo pregiudizio: quello contro la proprietà privata come fondamento della libertà.

Il pensatore tedesco ha affrontato il tema nel 1872 con La questione dell’abitazione, pubblicata a puntate sul giornale Der Volksstaat e poi in volume. In esso ha polemizzato apertamente con lo studioso francese e con i socialisti riformisti, accusati di voler affrontare il disagio abitativo senza rovesciare il sistema capitalistico e ricordando che “il cosiddetto problema dell’abitazione non è altro che uno dei numerosi effetti della moderna esplosione della miseria proletaria”. A suo avviso, la casa non è un bene da valorizzare o acquistare, ma uno strumento attraverso cui il capitale esercita il proprio dominio sulle masse. Di qui il rifiuto di ogni soluzione fondata sull’acquisto individuale degli alloggi: “Sarebbe un’assurdità – ha infatti scritto – pretendere che il proletariato in lotta con la borghesia possa attuare una trasformazione sociale comprando case ai prezzi di mercato”. La conclusione, coerente con l’impianto marxista, è netta: “La soluzione reale del problema dell’abitazione […] presuppone l’abolizione dell’intera società odierna, fondata sul capitale”.

Da parte sua, Proudhon, pur condividendo la critica alla rendita, si è collocato su un piano differente. In La teoria della proprietà ha superato le tesi abolizioniste della sua opera giovanile, nella quale ha coniato la celebre formula “la proprietà è un furto”, e ha teorizzato una forma di possesso diffuso e mutualistico, subordinato però a scopi sociali: “La proprietà è libertà. Ma questa libertà dev’essere estesa a tutti, e non può derivare dal privilegio”.

Nella sua visione, inoltre, il proprietario di immobili è assimilato al datore di lavoro: entrambi trarrebbero reddito dal lavoro altrui senza apportare contributo attivo. Diversamente da quanto sostenuto invece da Engels il quale, pur rifiutando la proprietà privata distingueva tra relazioni produttive e di consumo, ritenendo che l’affitto non costituisse una forma di sfruttamento diretto.

L’intellettuale d’Oltralpe, autore di Che cos’è la proprietà?, ha quindi ipotizzato una soluzione intermedia: trasformare l’inquilino in proprietario attraverso un riscatto graduale dell’abitazione, finanziato da una “banca del popolo” con prestiti gratuiti. Anche se ha parlato di esproprio forzato, l’obiettivo era comunque ben chiaro: dissolvere la figura del proprietario in nome dell’uguaglianza: “L’affitto perpetuo della casa è un furto”, ha affermato, sottolineando che: “Il locatore che riceve un canone per sempre, senza lavoro, è un parassita legale”.

Engels ha respinto tali ipotesi come contraddittorie e inefficaci, pur condividendo con il suo avversario la premessa ideologica: la necessità di superare il possesso individuale in favore di un assetto “più giusto”.

Su questo punto, però, si è aperta e si apre una riflessione di segno opposto. La casa non è solo un bene materiale, con un valore economico, ma anche un presidio di libertà, sicurezza, risparmio, identità familiare. Il diritto di possedere, migliorare o affittare un’abitazione non è di conseguenza un privilegio da combattere, bensì una delle manifestazioni più alte dell’autonomia personale.

La storia ha offerto conferme inequivocabili di tutto ciò: ovunque si è soffocata la facoltà di disporre dei propri beni, l’esito è stato un calo dell’offerta, degrado edilizio, crescita della conflittualità sociale. È accaduto nei regimi a pianificazione centralizzata, ma anche in molte grandi città occidentali, dove vincoli normativi e fiscali hanno frenato gli investimenti e scoraggiato la costruzione.

Come ha ammonito Frédéric Bastiat: “La legge non è un’istituzione di carità. Se lo Stato si occupa di far vivere, alloggiare, istruire e curare tutti, non farà che disorganizzare la società e distruggere la libertà”. A sua volta, Ludwig von Mises ha evidenziato: “Il mercato libero è il solo mezzo attraverso il quale si possa realizzare una distribuzione efficiente delle risorse. Le interferenze statali nel sistema dei prezzi impediscono al mercato di funzionare”.

La vera soluzione al problema abitativo, in definitiva, non sta nel restringere lo spazio della libertà, ma nell’ampliarlo: rimuovendo ostacoli, tutelando il diritto di proprietà, incentivando la costruzione e lo scambio volontario. Non è la casa a dover essere concessa: è la libertà a renderla possibile.

Aggiornato il 28 marzo 2025 alle ore 12:22