![I dazi e le invasioni barbariche](/media/8309977/tirano_dogana.jpg?crop=0.03096746832470653,0.051943584451324278,0.014440168414199475,0.012383900928792648&cropmode=percentage&width=370&height=272&rnd=133833345520000000)
Dai Cimbri ai Celti, dai timbri ai dazi. I controdazi
Dal tempo delle guerre romane abbiamo sempre dovuto affrontare le invasioni barbariche di varie etnie, le invasioni dei Traci, dei Cimbri, dei Celti, dei Teutoni e anche nei tempi più moderni abbiamo altre invasioni, sempre aggressive, come quella dei “timbri” e delle “norme” portata con violenza dalla burocrazia e dalla “pubblica amministrazione”, che diventa ossessiva e pauperizzante e difficile da domare. Un’invasione che sembra inarrestabile anche grazie ad una pervasiva cultura giuridica che diventa soffocante e uccide la creatività. Oltre ai timbri appunto, le norme si autogenerano all’infinito. Noi ne abbiamo oltre 120mila, mentre la Francia e la Germania riescono a convivere con 5mila-6mila norme. Lo stesso dicasi per l’Unione europea, in cui la governance è in mano a una burocrazia ottusa che deve disciplinare anche il nulla. Una burocrazia che fagocita tutto e lo trasforma in infiniti codici e leggi, la mancanza di una classe politica in grado di governare una realtà complessa come l’Ue con Paesi profondamente diversi in tutto ha favorito la crescita nell’ombra della burocrazia che ragiona in base a norme e non in base a persone.
Infine, abbiamo ora l’esplosione dell’invasione dei dazi commerciali, come sembra verificarsi con la politica di Donald Trump rivolta a recuperare il tempo perduto e le occasioni perse. Ma vediamo il senso anche storico dei dazi. La “guerra dei dazi” è allo stesso modo una guerra di invasione nella tanto declamata libertà degli scambi promossa dal nuovo, ormai vecchio, ordine mondiale. A loro modo i dazi sono stati avviati nel medioevo per imporre un onere al passaggio di merci da un comune all’altro. Il dazio in economia è una barriera artificiale ai flussi di beni e fattori tra due o più Paesi e in passato, tra due o più comuni di una stessa Nazione (in quest’ultimo caso si parla di dazio interno). Esso nasce da esigenze di politica economica di un singolo Stato (o gruppo di Stati) e si manifesta in manipolazioni amministrative dei flussi di beni in entrata e in uscita dallo Stato stesso. Per estensione è anche l’insieme delle strutture che ne assicurano il rispetto e l’esecuzione in frontiera, come la dogana.
Dal punto di vista politico, il dazio costituisce uno strumento di protezione di alcuni settori economici nazionali, quando questi non possono competere con la concorrenza estera. L’uso sistematico di questo strumento si chiama protezionismo. Nella maggior parte dei casi il dazio viene riscosso attraverso una dichiarazione doganale, pagata dall’importatore. Le entrate monetarie date dai dazi costituiscono per lo Stato un introito fiscale. In Italia il tema dei dazi e delle sanzioni è stato di particolare rilievo durante il ventennio fascista che, di fronte all’ostilità di altri Paesi europei, avviò un percorso di autonomia produttiva e resta famosa la guerra del grano la cui produzione venne avviata con una sorta di autarchia per rendere il Paese indipendente nel fabbisogno alimentare.
Sebbene preconizzata dall’ideologia dirigista fino dal 1925, la guerra dei dazi prese concretamente avvio solo dal 1937. La caratteristica italiana fu la misura dell’intervento statale, che fu molto esteso ed evitò il collasso del sistema finanziario, portando gran parte dell’economia in mano allo Stato. Tra le misure prese, si innalzarono i dazi sui beni importati. Il protezionismo commerciale fu poi fortemente accentuato quando l’Italia venne soggetta a sanzioni internazionali a seguito dell’attacco all’Etiopia nel 1935 ed alla deposizione del negus Hailé Selassie erede della dinastia salomonide che secondo la tradizione avrebbe origine dal re Salomone e dalla regina di Saba. Le sanzioni rimasero in vigore per otto mesi. Il successivo intervento nella guerra civile spagnola e l’alleanza con la Germania provocarono un ulteriore isolamento politico dell’Italia. Concretamente, le politiche autarchiche furono sostenute da una serie di provvedimenti per rafforzare il controllo centralizzato degli scambi commerciali con l’estero: nel 1935 fu costituita la Sovrintendenza per gli scambi delle valute, un ufficio dipendente direttamente dal capo del Governo. L’autarchia produsse un aumento dei costi e una diminuzione della produttività, a causa della qualità inferiore di prodotti sostitutivi nazionali rispetto a quelli precedentemente importati.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale si avviò il libero scambio tra i Paesi vincitori che creò la grande rinascita del primo dopoguerra, negli anni Novanta si istituì l’Organizzazione mondiale del commercio, abbreviato in Omc (in inglese World trade organization, Wto). Vi aderiscono 164 Paesi e altri 26 Paesi stanno negoziando l’adesione all’Organizzazione, comprendendo così oltre il 97 per cento del commercio mondiale di beni e servizi. L’Omc ha così assunto, nell’ambito della regolamentazione del commercio mondiale, il ruolo precedentemente detenuto dal’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (Gatt). Ora, con il piano di Trump saltano gli accordi mondiali in favore di un sistema regolatorio funzionale agli Usa al fine di ricomporre le sue attività manifatturiere, che nel breve tempo è solo una fantasia di potere.
Il problema degli Stati Uniti è quello di avere “finanziarizzato” l’economia reale e la manifattura mediante una sistematica delocalizzazione nei Paesi a più basso costo di mano d’opera, specie quelli in oriente. Questa situazione ha generato un sistematico deficit della bilancia commerciale, lo scorso anno, nel mese di novembre, ha sfiorato i 100 miliardi di dollari di deficit, a cui ha contribuito il volume del debito pubblico ormai alle stelle, 37mila miliardi di dollari e la bassa propensione al risparmio del Paese, che evidenziano il collasso socioculturale del Paese. Il piano Trump si propone una politica aggressiva di dazi per provare a ridurre il deficit commerciale del Paese, in parte dovuto al riacquisto delle merci prodotte in altri Paesi – il 40 per cento delle spese in uscita – e riportare questi settori produttivi, ormai persi, in patria. Gli Stati Uniti hanno registrato consistenti deficit commerciali dal 1976 a causa delle elevate importazioni di petrolio e beni di consumo. Nel 2022 i maggiori deficit commerciali si registrano con la Cina, il Messico, il Vietnam, il Canada, la Germania, il Giappone e l’Irlanda, e i maggiori surplus commerciali con i Paesi Bassi, Hong Kong, il Brasile, Singapore, l’Australia e il Regno Unito. Il Canada è il principale partner commerciale, rappresentando il 15 per cento del totale degli scambi, seguito dal Messico (14 per cento) e dalla Cina (13 per cento). La guerra dei dazi diventa una sfida commerciale ostile tra Paesi alleati che si vedono costretti ancora una volta ad assorbire le negatività del sistema Usa e del dollaro come era stato negli anni Settanta, quando con la fine del gold exchange standard venne scaricata sui Paesi europei una devastante ondata inflattiva che pose le basi e le condizioni nel nostro Paese del crescente debito pubblico.
La posizione di Trump si base sull’idea di riportare in patria le attività manifatturiere delocalizzate in altri Paesi da ormai più di 30 anni. Nei nuovi siti produttivi si sono nel tempo avviate attività con positivi equilibri economici, in cui le spese di avvio produttive si sono via via ripagate dai volumi di vendita che consentono un abbondante copertura del punto di pareggio. Questi equilibri tra costi e ricavi richiedono tempi lunghi e condizioni produttive, i cui costi possano essere coperte dai crescenti volumi di ricavi. Quest’azione non è possibile negli Usa perché economicamente non compatibile con gli equilibri produttivi realizzati altrove. Questa sfida è destinata ad infrangersi con i fatti reali e con il rischio che si avvii una lotta commerciale che non vede necessariamente gli Usa vincenti.
Il rialzo dei prezzi, poi, delle materie importate a più alti prezzi rischia di impoverire le fasce deboli del Paese, ridurre il margine di profitto delle imprese e dunque degli introiti fiscali che possono consentire di ridurre il gravoso debito pubblico. Gli Usa devono provare a riportare in positivo la bilancia commerciale e non possono aumentare troppo i dazi verso i Paesi fornitori di beni in cui hanno delocalizzato le produzioni, perché non possono nel breve e medio tempo sostituirle a condizioni economiche convenienti salvo peggiorare gli equilibri economici e sociali con significativi cambiamenti di prezzo. Gli Stati Uniti sono condannati a importare quelle produzioni delocalizzate. Allo stesso tempo devono esportare per gli equilibri di bilancio commerciale ed un aumento dei dazi verso i loro beni esportati può diventare estremamente dannoso. Così arriviamo ai “controdazi” fatti verso gli Usa, che dimostrano di non essere troppo alleati ma di considerarci alla stregua di clienti da sottomettere. Qui sta il ruolo della negoziazione della Ue verso gli Usa.
La posizione dell’Europa finora è stata di sudditanza sia nei confronti delle sanzioni derivanti da una guerra che poteva essere evitata e che sembra avviarsi verso una soluzione simile a quella proposta prima che la guerra incominciasse, sia verso qualsiasi iniziativa Usa indicata. La guerra dei dazi presuppone un’Europa indipendente e consapevole dell’assunto di Henry Kissinger, che dichiarava che essere amici degli Usa è pericoloso ma essere nemici è mortale. Ma sembra un percorso a ostacoli con troppi Paesi in conflitto e incapaci di capire che l’unità rafforza sempre nella storia le alleanze. Come scrive Tucidide ne La guerra del Pelopponeso, le alleanze sono forti se l’unione è condivisa, ma si sgretolano se questa viene a cadere o fatta cadere dal comportamento del soggetto che governa l’alleanza.
(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano
Aggiornato il 06 febbraio 2025 alle ore 16:55