L’attualità del “Minsky moment”

Hyman Minsky è stato uno studioso tra i più illuminati del secolo scorso per la sua versatilità e intuizioni nel campo dell’economia e della finanza, ma troppo pericoloso per le sue idee che davano evidenza di quanto il capitalismo finanziario fosse intrinsecamente instabile e soggetto a una dominante e pericolosa speculazione suicida. Il suo pensiero venne così oscurato, salvo poi recuperarlo oggi, quando i fatti lo confermano.

L’eretico Minsky metteva in discussione la razionalità dei modelli economici e finanziari che ignoravano l’intrinseca instabilità del capitalismo finanziario con una rilettura del Trattato di John Maynard Keynes, evidenziando che “è il sistema finanziario a regolare, in senso espansivo o restrittivo, l’andamento degli investimenti. La morale del messaggio keynesiano è che il sistema finanziario governa l’andamento dell’intera economia” (Hyman Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, 1975).

Minsky osservava come i mercati finanziari – il ruolo delle banche nel concedere o meno prestiti – e la non neutralità della moneta determinassero intrinsecamente oscillazioni e instabilità; l’instabilità finanziaria ha un andamento ciclico. Dopo andamenti positivi che portano ad assumere posizioni di rischio e di debito creati dalle aspettative più emozionali che razionali – le aspettative non sono conoscenze ma fa comodo pensarlo – gli stati patrimoniali delle imprese e delle banche diventano più fragili ed esposti a crisi finanziarie che si ripetono più intensamente, fino a generare bolle finanziarie sempre più disastrose. Le posizioni speculative, in queste fasi, si avvitano al rialzo in una sorta di schema Ponzi lontano dal reale, fino a quando la fiducia si incrina, il clima delle opinioni muta bruscamente e gli operatori non riescono più a finanziare le proprie posizioni scoperte di fronte ad un crollo dei prezzi; la crisi di liquidità si trasforma in una crisi di solvibilità ed il sistema collassa. In questi termini, aveva precocemente descritto la crisi del 2008 di Lehman Brothers: il Washington Post solo il giorno prima con il suo principale editorialista, Donald Luskin, sosteneva che non ci fossero problemi di sorta. La storia, però, ha dato ragione a Minsky, che muore nel 1996 nel pieno della finanziarizzazione dell’economia reale, che ci avrebbe portato ai disastri odierni e ai Nobel che santificano la finanza.

La speculazione finanziaria detta l’agenda dell’economia, stravolgendo la realtà, la storia e, di fatto, cancellando tutte le norme antitrust che avevano regolato i mercati. La separazione del dollaro da un sottostante, nel 1971, facilita l’avvio della gigantesca illusione del pifferaio magico. La ricerca del massimo profitto personale porta alla delocalizzazione del lavoro, alla perdita conseguente dei redditi derivanti dall’economia reale, all’aumento dei consumi a debito che generano una crescente insolvenza. Il produrre valore per gli azionisti crea la Cina come fabbrica del mondo, cancellando posti nella manifattura che viene portata nel celeste impero.

Il mercato azionario si trasforma in un casinò basato sulla speculazione che compra e vende in continuazione; il “trading” a elevata frequenza diventa un commercio elettronico, basato su modelli matematici che prendono le decisioni e la competizione si gioca sulla velocità con cui si fanno le operazioni, lasciando il mondo reale fuori da ogni schema. Le corporation diventano bolle infinite create da aspettative di risultati illusori, per creare valore i principi contabili consentiranno di accogliere nei risultati le aspettative future di reddito. I maggiori valori attribuiti dal mercato consentono un maggiore indebitamento, ma il valore delle azioni è frutto di manipolazione con il buy back e la liquidità del Qe (Quantitative easing) che, secondo Bloomberg, genera un plusvalore del 60 per cento.

La curva della massa finanziaria si alza sempre di più ma l’economia reale frena, la disoccupazione non consente di ripianare le posizioni di debito. Più crescono gli indici di borsa più peggiora l’economia reale. I due indicatori vanno su strade completamente divergenti. Il sistema si avvita verso il “Minsky moment” come mostra il grafico (vedi qui). Le imprese, lo Stato con la disponibilità di moneta a costo zero per la stampa infinita di moneta e il Quantitative easing hanno assunto crescenti posizioni di rischio, che hanno inizialmente favorito la crescita economica e le operazioni di leverage finanziario che hanno gonfiato gli indici di borsa. Lentamente le condizioni positive si sono allontanate e gli incrementi delle posizioni debitorie hanno superato i ricavi, creando una crisi di solvibilità e poi di liquidità che di colpo si abbattono sui mercati. Anche gli altri Paesi non sono immuni da questo andamento e la Cina con il suo settore immobiliare è una evidente dimostrazione.

Il livello di indebitamento delle imprese e degli Stati sta aumentando più rapidamente del Pil. L’esempio più evidente di questa espansione sono gli Usa, in cui il debito si avvicina ai 35mila miliardi di dollari con un Pil che si avvicina ai 23mila miliardi di dollari. Nel 2024 gli Stati Uniti dovranno sostenere una spesa per gli interessi sul debito pubblico superiore a quella federale per la difesa nazionale. Lo stima il Congressional Budget Office, come riporta Forbes, nel suo bilancio annuale che contiene anche le prospettive economiche decennali. È uno degli effetti del rialzo dei tassi da parte della Fed che va avanti da marzo 2022 per frenare la corsa dell’inflazione scatenata dal conflitto in Ucraina, con i mercati in attesa dell’avvio della stagione dei ribassi.

Le politiche antinflazionistiche messe in atto nei Paesi occidentali hanno fatto aumentare i tassi di interesse, i costi di produzione e conseguentemente i prezzi-ricavo. La ricerca di riduzione dei disavanzi tra indebitamento e crescita economica ha prodotto una riduzione dei posti lavoro senza precedenti se non il dramma della crisi del 1929 negli Usa, dove si è avverato il “Minsky moment”. Il contesto globale con una serie di forti attriti e guerre tra Paesi sta alimentando una pericolosa spirale che rischia di aggravare la situazione economica e finanziaria dei Paesi e delle imprese, ma sembra che non ci sia la lucidità per vedere i pericoli che ci stanno portando al caos. Per dirla con il compianto professor Emanuele Severino: “Siamo sopra un mare in tempesta ma non vogliamo vederlo”.

(*) Professore emerito dell’Università Luigi Bocconi

Aggiornato il 04 aprile 2024 alle ore 10:57