Desertificazione commerciale: un rimedio peggiore del male

L’iniziativa del Comune di Milano per contrastare il fenomeno

Ha trovato spazio sugli organi di informazione l’iniziativa della giunta comunale di Milano di varare un piano triennale da 15 milioni di euro con l’intenzione di salvare i negozi di vicinato della città. Questi, secondo i dati dell’Unione Confcommercio, hanno subito un drastico ridimensionamento nell’ultimo quinquennio, con la chiusura di 1.364 negozi, di cui 143 solo nel 2023. Il piano della municipalità meneghina prevede l’iniziale mappatura delle aree a rischio per poi apprestare bandi specifici destinati a chi si candida per aprire nuove attività. Quindi, la riqualificazione di tutti i 21 mercati coperti e, infine, il rilancio dei 13 distretti aperti in città. Al pari di quanto è già successo in altre precedenti occasioni e per iniziative similari, tra le cause dell’indicato allarmante fenomeno sono stati sbrigativamente assunti la concorrenza della grande distribuzione e quella dell’e-commerce nonché i costi di gestione, soprattutto per canoni di locazione, che avrebbero costretto alla resa i negozi dei centri urbani, provocandone la desertificazione. Le soluzioni ipotizzate si sono mosse su strade già battute dall’interventismo statale, come progetti di riqualificazione gestiti dagli enti locali, contributi per sostegno alle vecchie o per l’apertura di nuove attività, protezionismo attraverso la tassazione a favore dei negozi esistenti.

Si tratta, in buona sostanza, di rimedi che si mostrano peggiori del male che intendono curare, i quali non conseguiranno gli obiettivi che si sono prefissati i promotori e finiranno per aggravare ulteriormente una situazione che appare sin da ora allarmante, oltre a scaricare sull’intera collettività i relativi costi. Non bisogna mai dimenticare che i fondi stanziati dal Comune di Milano, come da altri Comuni, derivano dalle tasse e l’eventuale cattivo utilizzo finirà per rappresentare un costo a carico degli incolpevoli cittadini. Inoltre, come ogni nuovo intervento porterà con sé nuove inefficienze, per cui aumenteranno le richieste di ulteriori interventi e così via. Ovviamente, non si è considerato e non si considera che la desertificazione commerciale, che ha aperto la strada al degrado dei centri storici, è stata innanzi tutto causata dalle scelte che le Amministrazioni, compresa quella di Milano, hanno operato in sede di pianificazione urbanistica e con la zonizzazione del territorio. Che è un processo tecnico e politico di determinazione delle modalità di utilizzo del territorio, che contempla decisioni sottratte alle scelte individuali su come dovrebbe apparire un’area specifica, per cosa dovrebbe essere utilizzata e, ultimo ma non meno importante, chi dovrebbe realizzare lo sviluppo. Così hanno stabilito zone separate per le diverse attività (residenziale, industriale, commerciale, agricolo, standard urbanistici), evitato ipotetici contrasti (ad esempio una fabbrica all’interno di un’area residenziale) e apprestato gli strumenti tecnici e burocratici per adattare qualsiasi iniziativa al piano che, peraltro, hanno considerato valido con un orizzonte temporale di lungo termine, solitamente da 10 a 20 anni.

Nell’espletamento di siffatte attività, i decisori pubblici sono stati sostenuti da credenze interventistiche diffuse, tra le quali quelle che ritengono che, in assenza di pianificazione comunale pubblica, gli individui non abbiano la capacità sia di realizzare opere e attività, sia di creare comunità funzionali e prospere. Sicché, si rendono necessarie le scelte politiche in luogo di quelle individuali, l’assoggettamento della proprietà immobiliare al controllo pubblico, impedire ai privati di utilizzare liberamente i propri terreni e soddisfare i propri bisogni. In pratica, scegliere se costruire su un proprio terreno, quando, come e cosa costruire su di esso. La pianificazione, ponendo in essere una riorganizzazione arbitraria e politica dell’economia fondiaria, ha fatto lievitare i prezzi delle aree e dei fabbricati inseriti nelle diverse zone, in particolare in quelle centrali o di maggiore pregio, riducendo la disponibilità di detti beni e l’offerta a fronte di una domanda crescente. Ha altresì impedito, tra le altre cose, lo sviluppo di attività artigianali e commerciali nelle zone residenziali, soprattutto nei centri storici. E ha favorito la nascita e l’espansione dei centri commerciali, che ha pure allontanato dai centri abitati e posto al di fuori di essi, imponendo altresì dei costi alle comunità per la realizzazione delle infrastrutture e delle opere di urbanizzazione, soprattutto di trasporto, e ai cittadini per poterli raggiungere.

Alla desertificazione commerciale e al conseguente degrado dei centri storici, oltre alle scelte urbanistiche, ha contribuito il controllo degli affitti. Lo stesso è stato posto in essere con diverse misure legislative che hanno sottratto alle parti la possibilità di determinare liberamente il contenuto dei contratti, imponendo ad esempio limiti minimi di durata degli accordi locatizi (addirittura di sei anni per gli usi diversi da abitazione), rinnovi quasi automatici degli stessi, contenimenti agli aumenti dei canoni in misura inferiore all’inflazione o al costo della vita, blocchi all’esecuzione degli sfratti. È stata così soffocata la vitalità del mercato immobiliare e ridotto il valore creato dagli scambi e dalla concorrenza, rendendo impraticabili le soluzioni e gli incentivi che questa determina. I proprietari e costruttori sono stati conseguentemente scoraggiati dal mantenere l’offerta esistente o dal prendersi dei rischi per produrne di nuova, le quali cose hanno peraltro finito per far aumentare artificialmente la domanda di immobili e creato carenze nel mercato. Queste si sono poi riversate sui prezzi che sono inevitabilmente aumentati. A loro volta, i conduttori hanno spesso dovuto desistere dal ricercare unità confacenti e persino dall’intraprendere o mantenere attività commerciali, artigianali, professionali o altro.

A tutto ciò va infine aggiunga la tassazione sugli immobili, particolarmente elevata e penalizzante, che ha influenzato le scelte individuali e quelle delle imprese in merito ai consumi, al lavoro, al risparmio e agli investimenti, producendo di conseguenza un’alterazione dei loro comportamenti e determinando una inefficiente allocazione delle risorse, per essere impiegate in ambiti e settori scelti da politici e burocrati. Uscire da tale situazione non è semplice. Soprattutto “non esistono soluzioni semplici per problemi complessi”. Tuttavia, si potrebbe iniziare mutuando positive esperienze urbanistiche di alcune realtà, in particolar modo degli Stati Uniti d’America, ovverosia consentendo la riqualificazione dei centri storici e di quartieri delle città ad opera dei privati e tramite accordi tra gli stessi, che potrebbero riflettere esigenze e scelte individuali, senza l’intervento o la mediazione pubblica e politica. Ciò produrrebbe notevoli benefici e consentirebbe agli individui di vivere, abitare e operare in realtà create veramente da loro e a loro misura. Per le locazioni, dovrebbe essere finalmente abrogata la datata legge dell’“equo canone” (che ancora oggi disciplina le locazioni a uso diverso da abitazione), e rimosse tutte le altre disposizioni vincolistiche, anche valevoli per gli affitti delle case, che hanno ingessato il mercato, in favore della piena libertà delle parti e della loro autonomia contrattuale. La tassazione, che dovrebbe riguardare l’intero settore immobiliare, dovrebbe essere contenuta in limiti davvero minimi, senza alcun ulteriore appesantimento nazionale o locale e con estensione anche al settore degli affitti non abitativi dell’opzione fiscale della cedolare secca, vieppiù contenuta nella misura del 10 per cento.

Aggiornato il 27 febbraio 2024 alle ore 10:07