La casa non è il bancomat dello Stato

In un recente articolo pubblicato da un quotidiano nazionale, l’ex ministro nel Governo Monti, Elsa Fornero, ha proposto un’imposta sul patrimonio immobiliare, che, a suo dire, “molti Paesi europei hanno” e sarebbe altresì giustificata da pretese “serie difficoltà nella finanza pubblica e gravi iniquità sociali”.

A parte l’inconferente richiamo a similari iniziative di altri Paesi, dal quale esula ovviamente la constatazione che in Italia il gettito della sola tassazione dei beni immobiliari (1,26 per cento del Pil) è diventato pari a circa la metà dell’intero gettito derivante dalla tassazione del patrimonio e ha finito per collocarla tra i Paesi che ricavano più gettito (in termini di Pil) dalle imposte sugli immobili rispetto alla media europea (0,8 per cento), e a parte che, come più volte denunciato da Confedilizia, la patrimoniale immobiliare già esiste, e si chiama Imu, che – guarda caso – è stata introdotta nel 2012 dall’esecutivo di cui faceva parte l’attuale proponente. Non si comprendono neanche le ragioni per le quali i proprietari di immobili dovrebbero farsi carico dei problemi del bilancio dello Stato e, mediante l’incremento della tassazione patrimoniale, dovrebbero porre rimedio al mostro del debito pubblico, che con i suoi 2.868 miliardi di euro è prossimo al 140 per cento del Pil e rischia di lasciare un peso mortale sugli investimenti e quindi su una crescita economica già precipitata sotto la soglia dell’1 per cento.

Né dette ragioni possono essere rinvenute in pretese esigenze di giustizia sociale, alla luce degli altri assunti della stessa Fornero, la quale, a sostegno dell’invocato incremento della tassazione patrimoniale, ha addotto “gravi iniquità sociali” e “crescente disuguaglianza, che è manifesta nei redditi, ma ancora di più nei patrimoni”. Tutte cose che sono emblematiche di quell’ideologia politica e sociale che si è fatta strada a partire dall’inizio del XIX secolo ed è radicata nella teoria marxista. L’argomentazione centrale utilizzata dai suoi sostenitori è che lo Stato ha l’obbligo morale di redistribuire la ricchezza, le opportunità e i privilegi a favore di determinati soggetti e categorie sociali. Il che implica inevitabilmente la fornitura di beni da parte dello Stato ma pagati attraverso gli sforzi (= tasse) di altri.

Invero, a molte persone, in astratto, questa ideologia può sembrare moralmente giusta e politicamente attuabile. In pratica, però, la “giustizia sociale” ha causato i danni maggiori proprio a coloro che intendeva aiutare e ha finito per ostacolare il progresso della società nel suo complesso, alterando le dinamiche di mercato, proteggendo diritti acquisiti e creando nuovi privilegi, distruggendo il senso morale e determinando una disastrosa perdita di libertà personale. Basterebbe richiamare, e limitando gli esempi al solo settore immobiliare, i guasti prodotti dal regime vincolistico delle locazioni, quelli causati con l’Imu e la tassazione patrimoniale sugli immobili, i pregiudizievoli vincoli urbanistici ed edilizi, i disastri del sistema dell’edilizia residenziale pubblica, tutte cose che hanno finito per creare molti più problemi di quanto ne abbiano mai risolti.

In proposito Friedrich A. von Hayek ha scritto: “Il principale risultato negativo della giustizia sociale nella nostra società è che questo tipo di giustizia impedisce agli individui di raggiungere ciò che potrebbero raggiungere, dato che viene sottratto loro ogni mezzo per ottenere ulteriori investimenti. È anche l’applicazione di un principio non adatto ad una civiltà che ha una produttività alta, perché i redditi sono divisi in modo disuguale e quindi l’uso delle scarse risorse è diretto e limitato a dove danno il massimo profitto. Grazie a questa distribuzione diseguale, il povero ottiene, in una economia competitiva di mercato, più di quanto otterrebbe in un sistema a direzione centralizzata”.

A sua volta, Ludwig von Mises ha evidenziato: “Se il capitalismo migliora le condizioni economiche di tutti, il fatto che tale miglioramento non riguardi tutti allo stesso modo è di secondaria importanza. Un sistema sociale non può essere considerato cattivo soltanto perché favorisce alcuni più di altri. Se la mia condizione va migliorando, che danno potrà mai venirmene se quella di altri migliora ancor di più? Si dovrebbe forse distruggere il sistema capitalistico, che di giorno in giorno soddisfa sempre più le necessità e le aspirazioni di tutti, soltanto perché alcuni diventano ricchi mentre pochi altri diventano molto ricchi?”.

Così stando le cose, se, come ha pure riconosciuto l’ex ministro, le difficoltà finanziarie derivano da un debito pubblico elevato, bassa crescita, da “un disavanzo di bilancio strutturale, risultante da entrate fiscali stabilmente inferiori alla spesa”, nonché da “un tasso di interesse più alto del tasso di crescita dell’economia” non vi è alcun dubbio che la soluzione ai problemi indicati non possa passare dall’inasprimento della tassazione sugli immobili, che peraltro è già collocata ai limiti dell’esproprio.

Essa deve essere invece individuata nella riduzione dei compiti e delle funzioni dello Stato, ora diventato massimo, con una deregolamentazione ad ampio raggio e con un’estesa politica di liberalizzazioni e privatizzazioni, cui associare un deciso taglio della spesa pubblica, che è davvero elevata e assorbe oltre la metà della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. Tutto ciò avrebbe effetti benefici nella modernizzazione del Paese e per la crescita, consentirebbe di finanziare una cospicua riduzione della pressione fiscale, aumentando la competitività dell’economia, e di ridurre il debito, elevandone la stabilità nel lungo termine.

E realizzerebbe nel contempo la vera giustizia, che non penalizza ma esalta il ruolo e le funzioni della proprietà privata, non interferisce con le dinamiche del mercato e, soprattutto, promuove la cooperazione sociale volontaria, che è un gioco a somma positiva e avvantaggia, cioè, tutti i partecipanti allo scambio.

Aggiornato il 23 gennaio 2024 alle ore 10:57