Il dumping commerciale degli aiuti di Stato

La crisi dei sistemi produttivi dei Paesi avanzati, nel mondo occidentale, è stata causata dalla politica di terziarizzazione delle loro economie. Un’economia di mercato era considerata all’avanguardia se si poteva definire post-industriale. Produrre in senso materiale nelle fabbriche era considerato non più economicamente conveniente. Perciò si preferiva fabbricare nei Paesi a basso costo del lavoro, completando eventualmente il processo di lavorazione per poter apporre il brand “made in”.

In sostanza, le aziende italiane e tedesche sviluppavano il design e si occupavano essenzialmente del marketing e della distribuzione, attività economiche a più alto valore aggiunto. L’esternalizzazione dell’attività produttiva in senso materiale comportò una forte contrazione degli occupati nelle fabbriche e la chiusura di tanti impianti industriali. La politica di deindustrializzazione dell’economia era attuata a vantaggio dell’attività terziaria, con un ruolo preponderante teso alla finanziarizzazione dell’economia e del terziario avanzato, come ricerca, design, telematica, domotica.

Le grandi imprese degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Europa, per ragioni di contenimento del costo del lavoro e delle problematiche legate all’impatto ambientale, avevano delocalizzato le loro produzioni in quei Paesi che garantivano, oltre al minor costo del lavoro, meno investimenti connessi alle problematiche ecologiche. La Cina è il primo Stato che ha beneficiato delle politiche di delocalizzazione della manifattura: garantiva la stabilità politica, l’apertura agli investimenti esteri in joint venture con aziende locali di proprietà dello Stato e un costo del lavoro di un decimo rispetto a quello occidentale. Questa politica miope, attuata prima dalle multinazionali e, poi, anche dalle medie imprese, ha determinato che il continente cinese diventasse la manifattura del mondo a basso prezzo e a bassa qualità. Insomma: la Cina come fabbrica del pianeta.

La delocalizzazione, successivamente, si allargò ai Paesi del terzo e del quarto mondo, dove il costo del lavoro era ancora più basso, con zero problemi legati all’impatto ambientale. La crescita impetuosa dell’economia cinese, basata prevalentemente sulle esportazioni verso l’Occidente, consentì alla nomenclatura del regime di sfruttare la sua potenza economica, favorendo investimenti in settori chiave, come la produzione di cellulari, tablet e prodotti elettronici di ogni tipo oppure, in un dumping commerciale che ha sbaragliato la concorrenza europea, di strumenti per lo sfruttamento dell’energia solare e delle batterie a litio per le auto elettriche. In questo momento, il litio e le terre rare sono un oligopolio mondiale di poche multinazionali (cinesi, australiane e americane). Un’altra produzione fondamentale, quella dei microchip utilizzati per le auto come per gli elettrodomestici, è stata concentrata a Taiwan, Paese questo ad alto rischio.

In sostanza, l’Occidente si è reso dipendente dalle forniture della “fabbrica del mondo”. L’ex presidente statunitense, Donald Trump, comprese questa subordinazione degli Usa dalle importazioni cinesi e in parte da quelle europee. Così, con la politica dell’America First “costrinse” le imprese americane a ritornare a produrre negli Stati Uniti, applicando anche dazi alle importazioni dalla Cina e dalla stessa Europa, innescando una guerra commerciale che ha avuto effetti positivi sulla reindustrializzazione dell’economia nordamericana.

Fortunatamente, l’Italia che ha meno esternalizzato le proprie produzioni nel settore della manifattura di qualità, è risultata essere meno esposta della Germania alla produzione cinese. Trump non fece altro che utilizzare il classico e ciclico ritorno all’indipendenza (neo-autarchia) dell’economia a stelle e strisce. La stessa politica, in altre forme, la sta portando la presidenza di Joe Biden con i sussidi previsti nell’Inflation reduction act, un pacchetto legislativo che prevede aiuti alle imprese statunitensi per quasi 400 miliardi di dollari. Un sostegno di Stato che renderebbe l’industria Usa maggiormente competitiva, rispetto all’Europa, in un settore decisivo per lo sviluppo economico dei prossimi decenni, ovvero le fonti energetiche rinnovabili e la produzione di microchip.

Il rischio è che le sovvenzioni di Stato americane possano diventare attrattive anche per le imprese europee. L’Europa, per poter eventualmente sostenere la propria industria, dovrebbe modificare uno dei “pilastri” ritenuto quasi un dogma, relativo al divieto degli aiuti di Stato alle imprese appartenenti all’Unione europea. La triste realtà è che quando il “comandante in capo d’Oltreoceano” richiama all’ordine l’Europa per supportare i suoi interessi strategici (il riferimento alla guerra russo-ucraina è voluto), i “leader” dell’Ue si mettono sull’attenti. Quando le decisioni del potente alleato possono compromettere la competitività delle imprese europee, la risposta delle istituzioni europee è quantomeno imbarazzante.

Aggiornato il 27 gennaio 2023 alle ore 10:25