Taranto: centro siderurgico da chiudere ma nei fatti già chiuso

È la storia davvero incredibile di un impianto che nel 2017 è stato affidato alla gestione del raggruppamento Arcelor Mittal da parte dell’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda a seguito di una gara internazionale; dopo meno di un anno, con l’arrivo del ministro Luigi Di Maio al Mise, il contratto venne ritenuto inaccettabile e da rivedere integralmente. In fondo il Movimento 5 Stelle aveva, nella campagna elettorale del marzo 2018, ottenuto in Puglia un grande successo proprio assumendo l’impegno di chiudere, una volta al Governo, l’impianto in quanto altamente dannoso per la salute pubblica. Dopo una fase di alcuni mesi in cui il ministro Di Maio aveva dato vita ad un tavolo mirato a rivedere integralmente il contratto ritenuto addirittura “scandaloso” e, in caso di mancata accettazione delle modifiche da parte di Arcelor Mittal, si sarebbe proceduto all’annullamento del contratto stesso. Dopo, ripeto, alcuni mesi l’Avvocatura generale dello Stato fece presente che in realtà il contratto andava bene e, con piccole modifiche al numero di esuberi fissato inizialmente, Arcelor Mittal rimase gestore.

Però la storia non finisce qui: sempre con una iniziativa del Movimento 5 Stelle, in particolare dell’allora ministra del Sud, Barbara Lezzi fu tolto, attraverso un provvedimento legislativo, il cosiddetto “scudo penale” ai gestori dell’impianto per i reati commessi in precedenza e questa variazione portò Arcelor Mittal ad aprire un contenzioso e ad annunciare la possibilità dell’abbandono dell’impianto. La motivazione della rivisitazione del contratto da un lato e della crisi del mercato dell’acciaio nel mercato mondiale dall’altro hanno portato, in realtà, il gruppo Arcelor Mittal a non continuare il rapporto con le stesse condizioni iniziali. Da quel momento, siamo già nel 2019, si è avviato un confronto che ha portato ad un accordo che vede in realtà un ritorno dello Stato nella gestione dell’impianto.

Ho voluto riportare, in modo sintetico questo che, come dicevo all’inizio è una storia incredibile che denuncia in modo inequivocabile la incapacità di chi ha gestito nel 2018, nel 2019 ed oggi questi assurdi rapporti. In più occasioni, prima ancora che prendesse avvio il bando di gara per la scelta del nuovo gestore, sono stato un convinto assertore della chiusura dell’impianto perché per renderlo funzionale, per renderlo poco impattante, per renderlo competitivo sui mercati internazionali, occorreva, prima di ogni gara, dare vita ad un investimento di risanamento organico da parte dello Stato per un importo pari a circa 4-5 miliardi di euro ed ho sempre ricordato che anche dopo un simile investimento l’attività produttiva non avrebbe superato i 4 -5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno e quella occupazionale i 5mila addetti. Conveniva, quindi, rivedere integralmente la destinazione d’uso dell’area e la produzione di 4-5 milioni di tonnellate di acciaio, non essendo una soglia rilevante, poteva essere ottenuta o implementando gli altri impianti esistenti in Italia o acquistando delle partecipazioni in società produttrici all’interno della Unione Europea. La mia era una proposta che io stesso ritenevo impopolare perché tutti, dico tutti, erano convinti che, invece, l’impianto, gestito da un privato avrebbe raggiunto livelli di produzione superiori a 10 milioni di tonnellate l’anno con oltre 13mila occupati. Purtroppo, nella realtà si è verificato non quanto avevo previsto ma quanto oggettivamente era naturale che accadesse.

Tutto però sarebbe finito solo con un difficile e discutibile confronto, con un vero fallimento per il nostro Paese ma mai immaginavo che avremmo raggiunto un livello procedurale che definisco davvero patologico. Cerco di descriverlo e vi dico subito che quando ho appreso i vari passaggi pensavo si trattasse di una fake news, poi Paolo Bricco e Domenico Palmiotti su Il Sole 24 Ore hanno ribadito, in un articolo dal titolo “Ilva, riassetto appeso al vaglio del Tribunale”, che l’accordo ultimamente siglato è ancora non concluso infatti “la cessione del controllo da Arcelor Mittal a Invitalia è fissato per il 2022, quando Invitalia salirà al 60 per cento. Ma come è possibile acquisire il controllo di qualcosa che è sotto sequestro giudiziario? La fine del Piano ambientale, infatti, è prevista nel 2023. Soltanto alla sua realizzazione completa e allo sblocco della magistratura di Taranto, sarà possibile un passaggio effettivo di proprietà. Che cosa succederà tra un anno e mezzo?”. Di fronte a simili errori procedurali rimango sconcertato e mi dispiaccio perché simili comportamenti annullano la credibilità del nostro Paese e, cosa ancor più grave, rendono addirittura ridicolo il comportamento di chi ha responsabilità pubblica in un simile accordo.

Alla fine di questa sintetica descrizione pongo un interrogativo: ma se questo triste dramma (sì siamo in presenza di un dramma perché perdere 20mila unità lavorative significa dare vita ad una delle più grandi bombe sociali vissute dal nostro Paese) non fosse successo nel Mezzogiorno il comportamento, sia nella gestione del bando di gara internazionale, sia nella gestione del contenzioso, sia nella definizione delle possibili soluzioni occupazionali sarebbe stata uguale? Questo mio interrogativo non è carico di quel sistematico vittimismo meridionalista ma è solo mirato a sapere se la lunga altalena decisionale antecedente il 2018 e la sottovalutazione dal 2014 in poi del rischio di una fine irreversibile dell’impianto non si configurino, a tutti gli effetti, come un approccio tipico dei Governi che si sono succeduti da quella data in poi, un atteggiamento distante, come sempre dalle gravi emergenze del Sud.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

Aggiornato il 08 gennaio 2021 alle ore 12:13