Con il Coronavirus tutti i lavoratori sardi dei comparti privati e le aziende in una situazione di massima incertezza nella programmazione e nelle attività gestionali quotidiane, basta vedere la lettera inviata dal comandante Gian Giacomo Pisu, della Stazione Pratici del Porto di Arbatax al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli, e per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Tutti quelli che amano fare le vacanze in Sardegna, ne conservano un’immagine bella, che rimane nel cuore, ma al contempo fatta di contrasti visibili ad occhio nudo e frutto spesso di scelte a dir poco discutibili quanto ad investimenti in infrastrutture, capacità politiche dei loro governanti e capacità di guardare al di là del proprio confine, il mare. Se non altro non si riscontrano, o sono molto moderati dalla voglia di darsi da fare, atteggiamenti vittimistici che sono caratteristica di altre regioni meridionali, però viene un dubbio, la Sardegna è davvero meridione o è semplicemente altro? Qualcosa di cui ancora non si prende atto a livello nazionale e, forse, anche nella stessa isola? In questi giorni di Coronavirus guardando alla Sardegna si ha la sensazione che i sardi avrebbero tutte le ragioni per sentirsi offesi verso lo Stato, o quantomeno il governo, più o meno quanto al resto degli italiani, si sentono abbandonati dall’Europa.
Ma anche i sardi sono italiani, e lo sono da prima di molti altri, e sono stati anche Regno di Sardegna, dando la corona regale ai Savoia (a parte la parentesi siciliana durata solo sette anni) che erano stati solo conti e poi duchi. E adesso? Come si è arrivati alla situazione attuale? Ad un sentimento di abbandono doppio da parte dello Stato centrale e dell’Europa? Non possiamo nello spazio di un articolo ripercorrere la storia, ma c’è da dire che nel corso degli ultimi anni sono anche stati fatti molti errori anche dalla politica regionale che non riesce minimamente a farsi sentire dal governo centrale e ancor meno riesce a utilizzare il suo status di regione a statuto speciale, soprattutto se comparata alle altre tre Sicilia, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia, oltre alle Provincie Autonome di Trento e Bolzano. Ne è testimonianza il processo di richiesta di zona franca, intentato a più riprese dalle varie amministrazioni, di tutti i colori possibili, che si sono succedute in Sardegna negli ultimi quindici-vent’anni.
Si è scelto infatti di richiedere lo status di zona franca integrale anziché delimitare il perimetro in modo netto per avvantaggiare il commercio estero su estero (che comunque genera indotto nei servizi infrastrutturali), ricorrendo solo una parte dei requisiti del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, che all’articolo 349 definisce le cosiddette “regioni ultra-periferiche” elencandole in modo puntuale: Guadalupa, Guyana, Martinica, Riunion e Saint Martin, ancora, Azzorre, Madera e isole Canarie. La Sardegna non c’è, pur ricorrendo altri requisiti importanti come il sottosviluppo economico e sociale e, ancor di più, essendo una regione spopolata e con una dinamica demografica che accentuerà ulteriormente questa caratteristica negli anni a venire. E allora perché si è insistito tanto su questa linea perdente? Era uno specchietto per allodole? Una forma demagogica per poter accusare la matrigna Italia e l’egoista Europa? Certi malcostumi della politica nazionale sono arrivati anche sull’isola, infatti si nota in modo evidente una certa inerzia delle amministrazioni, incapaci di individuare e agevolare altre linee di sviluppo, come se le soluzioni dovessero per forza arrivare dall’alto o da fuori e non dall’interno.
Anche per quanto riguarda la recente amministrazione, che gode ancora per poco del beneficio del dubbio, fonti imprenditoriali ci segnalano ritardi sul “piano casa”, fatto che bloccherebbe le delibere dei comuni, comunque non esenti da ritardi propri, e procedure di sblocco per costruzione di nuove volumetrie e strutture ricettive, oltre ad altre delibere per la costruzione di importanti infrastrutture stradali come il tratto finale della nuova SS 554, che potrebbe ridurre costi di trasporto in generale e agevolare la circolazione turistica, ma questo è solo un esempio fra tanti. Perché non si fa bene almeno ciò che si può fare? L’economia sarda concorre appena per l’1,94 per cento al Pil italiano, attestandosi a circa 33,5 miliardi di euro (dati 2017), solo il 90 per cento rispetto al Pil del 2008, con una popolazione di circa 1,65 milioni di abitanti. Il Pil sardo è pari ad appena il 69 per cento della media europea, occupando la 214a posizione sulle 281 ragioni della Ue a 28 stati. Il sistema produttivo sardo ha una bilancia import-export negativa, importando prodotti per un valore di circa 6,8 miliardi di euro ed esportandone circa 5,4.
Il dato dell’esportazione è visto dagli analisti come fortemente influenzato da tre fattori, una bassa industrializzazione dell’isola con conseguente concentrazione dell’export su prodotti a basso valore aggiunto, l’elevata incidenza dei costi di trasporto sui prodotti destinati all’export, un po’ come dire che si importa tecnologia e si esporta prevalentemente agroalimentare e prodotti tecnologicamente semplici o di marginalità modesta, ma la considerazione è che sicuramente una minore incidenza dei costi di trasporto aiuterebbe l’esportazione di ciò che oggi si produce e l’accumulazione di capitale privato per investimenti. Oltre a questi elementi di debolezza economica, ve ne sono altri, la dimensione media delle imprese sarde è pari a 2,8 addetti, contro 2,9 del mezzogiorno e 3,9 del resto d’Italia. È evidente quanto, in tempi di Coronavirus, questo sia un ulteriore elemento di grande vulnerabilità, visto che alla piccola dimensione si associa anche la sottocapitalizzazione, e grave rischio di mancata riapertura al termine della pandemia, a meno che non si faccia fronte in modo serio e con decise iniezioni di liquidità.
Questo non solo in Sardegna, ma anche nel resto dell’Italia. Ma il dato più preoccupante, data l’attuale congiuntura, è un altro, se si guarda al numero di addetti per settore, ci accorgiamo (Istat) che il 17,1 per cento dei lavoratori sardi sono impiegati in attività di hospitality (3,7 per cento) e ristorazione (13,4 per cento), dati sensibilmente più elevati della media nazionale (12,8 per cento cumulata) e tali da esporre i lavoratori sardi a enormi rischi, considerando anche il fatto che queste attività si concentrano, volendo essere generosi, in cinque mesi all’anno e che per molti rappresentano l’intero reddito su base annua. A questi andrebbe sommata una certa percentuale, difficile da calcolare, di indotto di servizi, ma anche produzione, che trovano in quei settori lo sbocco naturale (attività di commercio, trasporto, manutenzione tecnico-impiantistica, altre attività ricreative, diportistica, produzioni agricole destinate all’Horeca, giardinaggio, artigianato, servizi per la persona e altre) tale per cui non appare più di tanto azzardato affermare che, tenuto conto che l’aggregato in valore aggiunto rappresentato da “commercio, trasporti, alloggi”, in Sardegna (Crenos su dati Istat) rappresenta il 27,1 per cento del totale, su oltre il 20 per cento dei lavoratori sardi attualmente impiegati oltre agli stagionali, incombe l’incubo della crisi e lo spettro della disoccupazione.
A questo va aggiunta, per fornire un quadro ancora più completo, la crisi dell’affitto degli alloggi privati, i cui riflessi statistici finiscono sul comprato immobiliare e della “sharing economy”, su questo punto, le indagini sui comportamenti di spesa, indicano in Sardegna, Sicilia e Puglia, le tre regioni in cui il fenomeno, legato a vacanze familiari più lunghe quanto a giorni di soggiorno, raggiunge il massimo nazionale (Crenos). La stagione turistica in Sardegna per il 2020, non si sta sviluppando sotto i migliori auspici, sta piuttosto subendo tre gravi shock contemporaneamente, la liquidazione di Air Italy (semplificando un po’, ex Alisarda, ex Meridiana) con licenziamento collettivo dei dipendenti (circa 500 sardi), il Coronavirus (che ha consentito di poter applicare almeno 10 mesi di Cigs ai lavoratori, ammesso che la Cassa funzioni meglio del portale Inps) e pochi giorni fa anche il blocco dei conti della Cin - Compagnia italiana di navigazione (Moby e Tirrenia) che sta producendo un balletto indecoroso di grave incertezza nei trasporti fra blocco dei traghetti, sblocco delle tratte che lavorano in continuità territoriale, minacce di nuovi blocchi legati alla situazione finanziaria della società, e così via. Una situazione di massima incertezza che getta tutti i lavoratori sardi dei comparti privati e le aziende in una situazione di massima incertezza nella programmazione e nelle attività gestionali quotidiane. Basterebbe vedere la lettera inviata dal Comandante Gian Giacomo Pisu, della Stazione Pratici del Porto di Arbatax al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli, e per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in cui esprime, con parole gentili e accorate, ma ferme e decise, il “disastro economico” che si genera al servizio pubblico di Pilotaggio col blocco dei conti correnti della Cin.
Parole dense, che hanno una validità che va anche al di là dello sblocco degli stessi conti, perché indicano senza possibilità di equivoco, la forte interrelazione fra le varie e delicate componenti di questo comparto. Ma è solo un segmento di una catena del valore molto più lunga, che si estende molto oltre i confini dei porti, fino a coinvolgere tutti gli altri comparti economici, in una sorta di reazione a catena. Già all’avvio della prima di queste tre crisi, quella di Air Italy, Confindustria Sardegna aveva denunciato un primo significativo calo delle prenotazioni, ma all’avvio della crisi da Coronavirus erano già fioccati gli annullamenti di svariate manifestazioni, disdette di prenotazioni di pacchetti vacanze fino al 50 per cento del totale, e non si era ancora incancrenito il problema Cin. Sarebbe facile quanto scorretto suggerire soluzioni assistenzialistiche in stile Alitalia, azienda tecnicamente fallita da anni, pozzo nero di conti pubblici e relative tasse per rifinanziarla, tanto da inserirla di straforo in decreti totalmente estranei alla sua annosa situazione, come uno dei tanti sull’emergenza Coronavirus, nei quali ormai entra di tutto.
Ciò che si denuncia è una situazione deteriorata dal punto di vista strutturale e istituzionale che lascia alla deriva un popolo intero, di cui la maggioranza di questo ritiene responsabili alla pari sia le classi politiche nazionali che quelle regionali. Il grido di allarme che si vuole lanciare è il rischio che migliaia di famiglie sarde rischino di rimanere senza lavoro e senza reddito nel giro di pochi mesi. Intere zone, già ai livelli minimi di sussistenza come la provincia di Iglesias e Carbonia, all’ultimo posto per reddito pro capite assieme ad altre due provincie siciliana e calabrese, facciano irrimediabilmente la fame, non potendo contare nemmeno dei proventi della stagione turistica. Il rischio che ne scaturisce è che si incrementi ulteriormente l’emigrazione giovanile, altro fattore di spopolamento di una regione a bassissima densità di popolazione. La Sardegna merita di essere trattata dallo Stato almeno come l’Italia pretenderebbe essere trattata in Europa, ma questo non esenta i politici sardi e quelli italiani a fare il loro dovere, lasciando perdere atteggiamenti demagogici improduttivi (vedi la gestione del caso zona franca integrale) figli di una classe dirigente in totale declino, come quella nazionale.
E i sardi? I sardi, come il resto degli italiani, sono vittime e complici di un’offerta politica sempre più scadente, populista e presuntuosa, cui si aggiunge un certo autonomismo ormai ridotto a simulacro delle lotte del fu Partito sardo d’azione. Però, anche se i sardi sono molto pazienti, nel loro piccolo, talvolta si incazzano. Bloccano le strade, ribaltano macchine, fermano camion. Sono stati gli unici a farlo, per ora. Sia chiaro, tali gesti non si giustificano sono atteggiamenti illegali e atti di danneggiamento, ma usare la voce sì, perché la voce è democrazia, e i sardi, autori di uno dei primi canti rivoluzionari in Europa (il Procurad’e moderare scritto da Francesco Ignazio Mannu durante i moti del 1794), spesso, messi alle strette, l’hanno saputa usare. Anche quando la democrazia non c’era ancora.
Aggiornato il 07 aprile 2020 alle ore 11:38