Progresso tecnologico e globalizzazione hanno influenzato il mercato e innescato la quarta rivoluzione industriale. Un nuovo paradigma è tutt’ora in evoluzione. Di certo impone un nuovo significato di “fare impresa” e obiettivi coerenti da perseguire. In tutte le sedi tecniche si concorda su un ruolo dell’impresa, nel XXI secolo, capace di non sacrificare il valore sociale ai numeri del conto economico e dello stato patrimoniale. L’obbiettivo è delineare nuovi percorsi, all’interno dei quali, l’impresa italiana possa garantirsi uno sviluppo equilibrato fra innovazione ed etica.
La globalizzazione offre opportunità di crescita che aumenta in progressione aritmetica ma costringe ad affrontare difficoltà che aumentano in progressione geometrica. Se, da un lato, l’abbattimento dei confini geografici permette alle aziende italiane di vendere prodotti e servizi ad una platea sempre più ampia, dall’altro apre il mercato nazionale a concorrenti esteri che spesso operano in contesti sociali e legislativi radicalmente diversi. Il “premio in palio” per il vincitore è sicuramente più ricco, ma risultare vincitore nel mercato è sempre più difficile.
In questo contesto le imprese italiane sono in difficoltà anche perché poco supportate dalle politiche fiscale e tecnologica. Il mercato globale consente alle imprese di affermarsi se sono capaci di sviluppare il loro business secondo due direttrici alternative, entrambe potenzialmente vincenti: diminuzione del prezzo a parità di qualità del prodotto o servizio offerto, ovvero aumento della sua qualità a parità di prezzo.
Data la scarsità delle nostre risorse primarie e il costo elevato della manodopera (per un eccessivo costo del lavoro) il mercato ha indotto le piccole e medie imprese italiane a focalizzarsi sulla qualità del prodotto. Sarà pure un successo di nicchia ma è pur sempre un successo; il Made in Italy è oggi un vero e proprio brand, un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo.
Affermarsi nel mercato globale come leader di qualità non è tuttavia facile soprattutto se il settore in cui si opera impone costante innovazione con costi in continua crescita. In questo caso, l’innovazione diventa condizione necessaria ma non più sufficiente, da sola, a fare la differenza. A confermarlo il mantra reso celebre da Peter Drucker “innovate or die”. Alla luce di questa evidenza, le nostre aziende devono prendere atto che, per garantirsi la sopravvivenza, devono crescere e, per farlo, devono pretendere che alla loro riflessione sulle innovazioni tecniche si aggiunga quella, più decisiva, della politica, sulle misure per favorire l’innovazione. Ambedue le riflessioni muovono del resto dalla comune considerazione che il percorso dell’innovazione è lastricato di insuccessi ma ogni successo apre opportunità inattese in ogni direzione.
La capacità di innovare, di per sé stessa, non è una skill che si può insegnare o acquisire; è invece il risultato della possibilità data ai singoli di mettere in discussione gli status quo e dare sfogo alla loro creatività. Questo significa adottare la cultura dell’errore e con essa il favore per la ripetizione del tentativo. Le aree di ricerca e sviluppo una volta erano un lusso ma oggi, come luoghi del trial and error in ambiente controllato (con tutele tangibili per i dipendenti), sono indispensabili per garantire un futuro ad ogni azienda.
L’innovazione pretende un modello culturale in cui la politica e l’attività d’impresa considerino l’errore non come un fallimento da stigmatizzare, ma come momento formativo e tappa necessaria nel percorso creativo e di sviluppo. Solo con questa “cultura dell’errore” si creerà un ambiente fecondo capace di alimentare quello che Gaetano Zambon chiama il “soffio ispiratore” di qualsiasi innovazione.
(*) Sollicitor and equity trader
Aggiornato il 01 ottobre 2019 alle ore 13:43