Due miliardi e mezzo di euro. È a questa incredibile cifra che ammonta la pena inflitta dalla Commissione europea a Google per abuso di posizione dominante. Un’accusa che riguarda le “posizioni” in cui vengono elencati i prodotti in vendita sul web, attraverso l’applicazione di Google Shopping. In parole semplici, se un utente cerca informazioni su un prodotto (ad esempio una borsa, un computer, un telefono) nella piattaforma di Google, trova in prima pagina i prodotti messa in vendita da alcuni specifici siti di vendita on-line che pagano per poter essere pubblicizzati nelle prime righe di ricerca.
Una volta proposto il primo elenco di siti suggeriti per l'acquisto, l’utente è comunque in grado di elencare i prodotti per prezzo, o per punteggio delle recensioni. Un sistema che si ripete in qualsiasi piattaforma di “listing”, ovvero di vendita di prodotti o servizi. Se prenotiamo un hotel su una qualsiasi piattaforma on-line, ci ritroveremo lo stesso meccanismo. Se vogliamo acquistare un’assicurazione on-line, accadrà lo stesso. Persino se vogliamo comprare una casa ci ritroveremo sempre alcuni “annunci in evidenza” (di esercenti che pagano una cifra maggiore per poter avere una miglior “vetrina”), su cui si potrà, sempre, applicare degli ulteriori filtri. Questo è internet, e questi sono modelli di business che hanno permesso di costruire, negli anni, maggiore concorrenza e trasparenza a beneficio dei consumatori.
La Commissione europea ha però una diversa opinione su questo sistema, che ad oggi è utilizzato liberamente da milioni di persone, tra venditori e acquirenti. Si tratterebbe, secondo il braccio esecutivo dell’Ue, di un comportamento che consente al colosso del web di sfruttare la sua posizione dominante di piattaforma di ricerca per fare business in un altro servizio, ovvero quello dello shopping. Una condanna che ci riporta indietro nel tempo, quando, nel 2004, Microsoft venne multata di 497 milioni di euro per aver “costretto” i consumatori a ritrovarsi il riproduttore video musicale Windows Media Player all’interno del pacchetto Windows. Anche in questo caso il “nanny-state” Unione europea aveva considerato come grave pericolo il fatto che ogni consumatore che acquistava un pc con Windows trovasse già installato il software di riproduzione media Windows Media Player. Secondo l’allora commissario Mario Monti, il consumatore non veniva quindi “incentivato” a cercare alternative al sistema Windows Media Player. Chiunque abbia utilizzato un computer negli anni 2000, può però facilmente ricordare come la maggioranza degli utenti, specialmente giovani, erano soliti utilizzare (senza l’incentivo dell’Ue) anche molti altri software di riproduzione audio-video, come Winamp, Vox o Quicktime.
Lo stesso accadde nel 2012 quando Windows venne nuovamente multata perché installava di default il browser Explorer sui suoi pc. Anche in questo caso veniva rilevato come il consumatore non venisse incentivato a cercare alternative rispetto al sistema offerto da Windows. E anche in questo caso, la realtà era molto diversa: secondo alcuni dati (GigaCom), solo nel 2010 oltre 100 milioni di persone utilizzavano il browser Google Chrome e 250 milioni avevano scaricato Mozilla Firefox. Entrambi alternativi a Explorer. Un comportamento spontaneo, dovuto al normale “scambio di informazioni” che avviene tra consumatori, anche grazie al web. Non bastavano quindi i casi di Microsoft a insegnare che queste multe fanno male all’innovazione e non fanno davvero bene alla concorrenza. Ancora una volta un sistema governativo ha considerato l’individuo come un bambino a cui una tata, in questo caso la Commissione europea, è tenuta a dare lezioni di vita su come orientare i propri consumi. L’ennesimo, grave, precedente, che riporta la tutela del mercato e dei consumatori, ad una deriva autoritaria e ragionevolmente anti-storica. L’informazione, che rappresenta la base per un buon funzionamento dei sistemi democratici, è largamente sostenuta e promossa dal web. E ricordiamoci che, senza Google, non avremmo potuto né scrivere né leggere questo articolo.
(*) Articolo tratto da Linkiesta
Aggiornato il 29 giugno 2017 alle ore 10:30