Draghi esclude nuovi tagli tassi, ma sul Qe prende tempo

Mario Draghi stupisce ancora. Il presidente della Banca centrale europea fa un piccolo passo verso l’uscita dallo stato d’emergenza: i tassi non scenderanno oltre e i rischi per la crescita non ci sono più. Ma per il rientro degli acquisti di debito prende tempo: e non per le difficoltà di bilancio di Paesi come l’Italia, invitati a fare da sé senza dimenticare le riforme, ma per colpa di un’inflazione che non decolla.

L’Euro, di fronte a un messaggio da “colomba” celato dietro a un comunicato più da “falco”, dopo una breve fiammata indietreggia a 1,2220. E lo spread italiano scende a 190 da oltre 200. Nel comunicato dopo il consiglio direttivo, svoltosi ieri a Tallinn, la Bce spiega che manterrà i tassi “al livello attuale ancora a lungo”. Sparisce la possibilità di abbassarli, una sorta di valvola di sicurezza che fino ad oggi aveva segnalato una posizione ultra-espansiva. I rischi per la crescita, fino a ieri “orientati al ribasso”, ora sono “bilanciati” con una ripresa “solida e ben diffusa” nell’Eurozona: inevitabile, dopo che Eurostat ha certificato un forte +0,6% nel primo trimestre e che la stessa Bce ha migliorato le sue previsioni: +1,9% quest’anno, in rallentamento graduale verso l’1,7% nel 2019: livelli che non si vedevano da un decennio, al passo con gli Usa. Ma all’interno di questo aggiustamento c’è un aspetto più sostanziale spiegato da Draghi.

L’inflazione ancora non va: le stime della Bce peggiorano, con un 1,5% per quest’anno (da 1,7%), un pesante 1,3% il prossimo (da 1,6%) e un 1,6% nel 2019. Numeri che richiedono grande cautela da parte della Bce nel ritiro del Quantitative easing (Qe). Che continuerà agli attuali 60 miliardi di euro “fino alla fine di dicembre o oltre se necessario”, e potrebbe persino aumentare se richiesto da un peggioramento del quadro economico. C’è di più: la Bce non ha discusso la data in cui decidere sul futuro del Qe. Vacilla l’ipotesi che a settembre arrivi una “roadmap” per la futura riduzione progressiva a 40 miliardi e poi a scendere, a partire da gennaio 2018. Resta tutto da vedere, finché l’inflazione non sarà stabilizzata e convincente: “Dobbiamo essere pazienti, dobbiamo essere fiduciosi, dobbiamo essere persistenti”, scandisce il presidente della Bce aggiungendo che di “normalizzazione” della politica monetaria non si è parlato oggi (ieri, ndr) al di fuori dell’intervento di un paio di consiglieri. Draghi incassa il favore del Fondo monetario internazionale: “Siamo rassicurati dall’impegno della Bce a una politica accomodante”.

La sua mossa piacerà meno all’amministrazione Usa, per la quale un Euro più forte sarebbe una mano santa, ora che misure protezionistiche come la “border tax” sono impantanate. Ma la prossima stretta della Federal Reserve, con una crescita che fatica, rischia di slittare: data per quasi certa a giugno fino a poche settimane fa, ora gli investitori puntano a dicembre. A tirare un sospiro di sollievo sono anche Paesi come l’Italia che temono un rialzo dello spread. A domanda specifica sull’Italia, Draghi spiega che “ci sono sempre Paesi che anticipano e Paesi che restano indietro”. Ma “il nostro programma guarda alla stabilità dei prezzi”, non è al bilancio italiano, o di altri. I Paesi con un bilancio debole, bassa crescita e un ritardo nelle riforme strutturali “saranno più toccati da un rialzo dei tassi”, riconosce Draghi. “Rilanciare la crescita è la cosa più importante”, aggiunge.

Un messaggio che arriva dopo la cauta apertura di Pierre Moscovici, il commissario Ue agli Affari economici cui l’Italia ha chiesto uno “sconto” sull’aggiustamento strutturale di bilancio: “Risponderemo alla lettera di Pier Carlo Padoan al momento opportuno. Lo faremo usando i nostri margini di apprezzamento sulla situazione macroeconomica: c’è qualcosa che non vogliamo fare e che non faremo: non imporremo agli Stati membri sforzi che possano ridurre fortemente la crescita”.

Aggiornato il 08 giugno 2017 alle ore 22:53