Usa: cambia l’indirizzo   economico (o no?)

Parlando davanti al Congresso riunito in seduta comune, il 28 febbraio scorso, il presidente americano Donald Trump ha ribadito i pilastri fondamentali del suo programma politico: espansione delle spese militari, riduzione del carico fiscale alle imprese, lotta all’immigrazione irregolare, revisione degli accordi commerciali internazionali al fine di promuovere gli interessi americani, cancellazione della riforma sanitaria “Obamacare”. In politica estera, inoltre, ha reso omaggio alla Nato e agli alleati, chiedendo però ad essi uno sforzo in più per contribuire al mantenimento dell’organizzazione. L’opposizione democratica presente in aula ha reagito in modo timido alle sollecitazioni del presidente; le feroci critiche delle prime settimane sembrano svanite e ciò fa pensare che all’interno della classe politica americana vi sia un ampio consenso di fondo sugli obiettivi dell’amministrazione in carica.

Al centro del suo discorso, Trump ha posto un programma di sovvenzioni statali per gli imprenditori, al fine di aiutarli a penetrare i mercati esteri, dichiarando che la sua amministrazione stava sviluppando una riforma fiscale storica, che ridurrà le aliquote in modo che le imprese americane possano competere e crescere ovunque e contro chiunque. Quali potranno essere le conseguenze di questo rinnovato “nazionalismo economico” in terra americana? In realtà, non sembra essere una vera rivoluzione, ma si tratta – per lo più – dell’accelerazione di una tendenza che la politica economica americana pare già aver assunto da un ventennio.

Sul finire degli anni Trenta del XX secolo, quando divenne chiaro che un’altra guerra mondiale era alle porte, gli Usa trassero la conclusione che la causa scatenante di essa stava nelle rivalità commerciali e nella formazione di blocchi economici contrapposti; e fu così che determinarono la necessità di stabilire nuovi meccanismi che avrebbero assicurato una “pace commerciale” nel dopoguerra. Dopo aver sconfitto i suoi principali avversari militari (le potenze dell’Asse) e avendo constatato che l’egemonia economica della Gran Bretagna era ormai tramontata assieme al suo glorioso impero, gli Stati Uniti sfruttarono la propria posizione dominante – per lo meno sul mondo “Occidentale” – per fissare un nuovo ordine economico capitalista fondato sul libero scambio. Sulla base di questa analisi, gli Stati Uniti sono stati il principale attore nelle trattative che portarono all’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (Gatt – General Agreement on Tariffs and Trade), entrato in vigore nel gennaio del 1948, con l’obiettivo sostanziale di una riduzione delle tariffe e delle barriere commerciali. Il principio su cui era basato il Gatt era quello della “nazione più favorita”: le condizioni praticate con il Paese più favorito (vale a dire quello a cui venivano applicate il minor numero di restrizioni) sarebbero state estese incondizionatamente a tutte le Nazioni partecipanti. I vari cicli di negoziati svoltisi nei decenni successivi – nel quadro del Gatt – assicureranno all’Europa Occidentale e al Nord America un’espansione del commercio senza precedenti, alla base del boom economico del dopoguerra. Il Gatt venne messo in soffitta e sostituito dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto – World Trade Organization) nel 1995. Ma quest’ultima ha una storia del tutto diversa, in un’epoca di peggioramento graduale della situazione economica (in particolare, dopo la crisi finanziaria del 2008), che ne ha sancito l’immobilità di fatto. Oltretutto, la Wto è rimasta travolta dalle critiche per aver promosso una “globalizzazione” sfrenata dell’economia senza considerare le ricadute occupazionali, in particolare dall’ingresso nel 2001 di un gigante come la Cina.

Lo scenario economico mondiale ha assistito, dunque, negli ultimi anni, alla creazione (o al tentativo) di accordi commerciali coinvolgenti un numero “selezionato” di Paesi; fra questi, il Nafta (North American Free Trade Agreement) e il Tpp (Trans-Pacific Partnership) hanno rappresentato esempi che costituiscono un palese cambio di indirizzo rispetto ai princìpi stabiliti dal Gatt nel 1948. Nel presentare il Tpp, che deliberatamente escludeva la Cina, Barack Obama aveva sostenuto che il suo obiettivo era quello di porre gli Stati Uniti al centro di una rete di relazioni commerciali e di investimenti. Ben prima dell’ascesa di Trump, l’aumento di offerte commerciali “limitate” e la disgregazione del quadro Gatt-Wto aveva portato a crescenti preoccupazioni che il commercio mondiale potesse condurre a situazioni di potenziale conflitto. Le misure commerciali dell’amministrazione Trump viaggiano in continuità con quelle dei suoi predecessori, ma si assiste a un cambiamento di livello: ora, anche le “offerte multilaterali” vengono rottamate e gli Stati Uniti intendono impegnarsi in accordi bilaterali che sottintendono la minaccia, nei confronti dell’altro contraente, che saranno strappati non appena diventeranno svantaggiosi per Washington.

L’agenda Trump ha suscitato diffuse preoccupazioni sulla direzione in cui il sistema capitalista mondiale si sta dirigendo. Una volta sferrato l’attacco alla posizione egemone, sembrano possibili solo due esiti: il collasso del sistema commerciale mondiale, che farebbe ricadere il mondo in una guerra economica di tutti contro tutti, dove ciascuna delle maggiori potenze cerca di eliminare i suoi concorrenti (anche con mezzi militari); ovvero, l’altro scenario, basato sulla nascita di una nuova potenza egemone (la Cina?), che potrebbe però presentare il medesimo rischio: infatti, la sostituzione di un potere da parte di un nuovo soggetto, singolo o gruppo di poteri, non implicherà una transizione pacifica. Come dimostra la storia degli ultimi due secoli, il capitalismo mondiale non ha mai risolto il problema dei suoi rapporti economici fondamentali in questo modo, ma solo attraverso un conflitto armato.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:24