“Goooooood Morning Giggers!, Welcome to the age of Gigonomics”. 12 gennaio 2009: dalle colonne del “The Daily Beast”, la editor-in-chief Tina Brown annunciava così il benvenuto alla Gig Economy. Una sorta di “Good Morning Vietnam” urlato con la voce inconfondibile di Robin Williams, dedicato ai soldati dell’economia impegnati in una lotta infima contro la guerriglia della crisi mondiale! “Ehi, non è una prova questa, questo è rock and roll!”, parafrasando “lunga vita alla Gig Economy!”.
La Brown aveva appena analizzato i risultati di un sondaggio commissionato dal suo giornale, da cui emergeva come le gig, individuate come tutti quei lavori temporanei, quelle consulenze e quelle prestazioni offerte come freelance in grado di garantire un reddito annuale dignitoso, garantissero già allora il mantenimento di un terzo dei lavoratori americani. Tanto bastava per coniare il termine “Gigonomics”, l’economia fondata sulle gig. Straordinariamente semplice e “non nuovo”!
Ma se la pratica non è nuova, quel che è straordinariamente nuovo è il supporto, lo strumento che rende questa pratica smart come mai prima: il web. Ragazzini meravigliosamente spregiudicati e creativi, nonne alternative ed irriducibili, studenti emancipati, insomma, chiunque disponga di un personal computer o anche solo di uno smartphone e possa accedere ad una connessione Internet, è nella condizione di poter vendere la propria creatività o abilità, attraverso quelle che sono state definite in modo geniale da James Kirput (Telegraph) come le “piattaforme on-line del talento”.
Gli operatori della Gig Economy sono persone che hanno mediamente una buona conoscenza della tecnologia informatica, sono spesso laureati o professionisti già affermati e decidono di “non accontentarsi” delle risorse derivanti da un impiego “normale” e definiscono da soli il livello di benessere da perseguire. Non “consumano” le risorse che non appartengono loro, valorizzano invece al massimo le proprie, le reinterpretano, attraverso una visione e testardaggine imprenditoriale…”stay hungry, stay foolish”! Questa generazione di giggers, capaci di offrire competenze di altissimo livello in modo efficace ma non invasivo e, soprattutto, a tempo determinato, possono apportare l’innovazione necessaria a far partire le piccole e medie imprese italiane e renderle competitive con i colossi multinazionali.
La dinamica virtuosa Gig+Pmi è ben rappresentata dalle note piattaforme eBay o Airbnb, entrambe nate con l’intuizione di collegare l’esigenza di un servizio all’offerta dello stesso. Da mercatino dell’usato per gli amatori che avevano bisogno di vendere oggetti che non utilizzavano più, la piattaforma eBay ha presto attirato l’attenzione delle piccole e grandi aziende che ne hanno intuito il potenziale di condivisione delle informazioni. Oggi eBay è controllata da piccole e grandi imprese di distribuzione.
Airbnb ha una storia simile, se è vero che ormai, come testimonia il Wall Street Journal, anche i big player del real estate mondiale trovano conveniente affittare interi building attraverso questa piattaforma piuttosto che attraverso i tradizionali canali di vendita. Ancora, vale l’esempio portato dalla rivista “Fast Company” di alcune catene alberghiere che hanno dato mandato ai propri manager, affinché offrano stanze ai turisti tramite semplici ed accattivanti app; il tasso di occupazione e la visibilità ne traggono giovamento.
Un tale cambiamento è possibile nonché doveroso anche per le Pmi italiane, a condizione di attivare uno shift culturale nella direzione di una valorizzazione dei giggers, portatori di idee e tecnologie, all’interno dei propri quadri. Quella che si può realizzare in Italia è una nuova e straordinaria partnership tra il dinamismo tutto internazionale dei giggers e la tradizione del lavoro. Ne deriverebbe uno strumento di lavoro nuovo, unico ed eccezionale, in grado di rendere sagge le nuove imprese e virtuosamente foolish quelle consolidate.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:23