
Diceva William Shakespeare: “Noi siamo fatti della stessa stoffa dei sogni”. Ma, questa cosa straordinaria, è ancora vera nell’era del live action, dove l’iperreale gioca a carte con il reale, alterando le regole visive a ogni cambio di scena? Insomma, che cosa diranno i bambini di questo terzo decennio del XXI secolo, assistendo alla proiezione dell’attuale versione ultra-woke di Biancaneve firmata dal regista Marc Webb, prodotta dalla Disney e tratta dalla dolcissima e romanticissima fiaba ottocentesca dei Fratelli Grimm? Certo, nella fazione grigio-bianca dei nostalgici che non hanno dubbi in merito (non c’è confronto, cioè, con l’antico, che domina per la sua assoluta qualità etico-artistica!), ci stanno comodi tutti i baby boomers. Ma i nostri nipoti e pronipoti che non hanno né letto la fiaba, né visto il meraviglioso cartone animato della Disney, giudicheranno solo e soltanto a partire da quest’ultima proposta della più famosa casa cinematografica del mondo di film per bambini. Quindi, non potendola più guardare con i loro occhi (com’erano una volta anche quelli del grande adulto di oggi), non si può che cercare di restituire con onestà lo spettacolo così come si è creduto di vederlo. E, l’analisi in questo senso contempla tre piani di dura cultura wokist, a partire dai quali occorre costruire la chiave interpretativa del film.
Il primo, riguarda proprio le due figure centrali, interpretate da attrici vere, di Biancaneve (Rachel Zegler) e della Strega Cattiva (Gal Gadot). La prima, di origini colombiane, rappresenta il riuscito melting pot all’americana, e l’unico omaggio alla tradizione classica da parte sua è il vestito-brand tradizionale, il cui modello di sartoria non è mai cambiato dagli anni Trenta. Dopo di che, però, la sua immagine adolescente assomiglia come una goccia d’acqua a quella di Cenerentola, mentre il suo principe salvatore (Andrew Burnap) è in realtà un ragazzaccio di strada (pardon, di bosco), ladruncolo quanto basta per essere ancora più povero di Biancaneve, ridotta al rango di sguattera. Il passaggio dal Paradiso terrestre in terra, rappresentato dal piccolo regno semi-mistico del padre e della madre regina (in cui proprio tutti gli abitanti sono felici, danzano, confezionano e consumano torte a ritmi frenetici), al regno cupo e super armato della Strega dello Specchio magico è ottenuto per saltum. Cioè, non è spiegato. Salvo che a correggere questo problematico iatus (in cui certo la magia e il delitto c’entrano eccome) arriva a sorpresa il finale. E qui lo spiritello woke di questa ben strana epoca fa sì che sia proprio lei, senza nessuna figura di principe accanto, vestita di un manto rosso acceso come quello di Cappuccetto Rosso, a pararsi in beata solitudine di fronte al Male Oscuro femmineo. Provocando così, con il solo suono soave della sua voce, l’incanto del disgelo dei cuori, racchiusi in dure, apparentemente impenetrabili corazze.
E, come ogni donna moderna in carriera che ce la fa, superando tutti gli ostacoli edificati contro di lei in questo mondo vetero matrio-patriarcale, la Biancaneve woke riesce a rompere l’incantesimo, rigenerando il mondo che fu. La strega superlativa, però, non spaventa proprio nessuno (e qui è un vero peccato), eccessivamente carica e sfavillante di brillocchi che tracimano da tutte le parti (peggio che nelle miniere coltivate dai nani, decisamente da rivedere stilisticamente). Orrida figura disperata, praticamente un Batman alla rovescia, questa strega mangia uomini e avida di cuori di cristiani, combatte una battaglia interiore spietata e negativa, tutta orientata a impedire che la sua anima nera si contamini della pericolosa pietas umana. Meglio di lei fa l’animazione dello specchio, che poi è la buona coscienza di tutti noi. Decisamente insulse e banali le parole dei passaggi in musica. Lui, invece, il non-principe, è un guitto di scena, figlio di una compagnia sbandata di attori girovaghi, perseguitati dal nuovo potere e fanatici (per modo di dire) difensori in ciarpame del re scomparso. Una compagnia, insomma, in perfetto stile Armata Brancaleone. William Shakespeare ne sarebbe stato felice: mezzo Guglielmo Tell, metà viceré di Sherwood, questo neo monello disneyano.
L’unico baluardo di tradizione pura a tanto dilagare di novità, sono le scene in live action degli animali selvatici, rigorosamente figli del bosco (scoiattoli, soprattutto), e sempre molto numerosi nel seguire la vaporosa scia di Biancaneve, rispetto alla quale si pongono come interfaccia maternale, intrisa della bontà e della perfezione assolute della Natura, cui fa eco nel mondo di mezzo, popolato di gnomi e buona umanità, la burbera bonarietà e la vitalità caotica dei nani. Cucciolo, però, è un capolavoro di mimica e di espressioni facciali, cariche di ogni contenuto affettivo, che fanno da felice legame tra il magico e l’umano. Molto ben riuscite sono le scene collettive in cui gli ometti pluricentenari giocano con tutte le facezie del burbero-litigiose, caratteristiche delle loro venerande età. Insomma, bimbi, diteci alla fine come la pensate voi. Ma, consiglio spassionato: compratevi il libro illustrato della favola antica. Imparate a fare i confronti, se ci riuscite, senza “Rete” (Internet)!
Aggiornato il 21 marzo 2025 alle ore 16:37