Chi si addentra nelle strade dell’anima non può che farlo senza sottrarsi all’eco di ogni sua manifestazione. Può così capitare ciò che in fondo dovrebbe forse capitare più spesso, e cioè che uno psicoanalista sia anche poeta. Filippo Strumia, nato a Roma, dove vive e lavora come psichiatra e psicoanalista di orientamento junghiano, ci consegna in questi versi anche gli steli della propria anima, che, come fini antenne, gli consentono di captare i riverberi di quelle dei suoi lettori, che in queste Pozzanghere possono specchiarsi come potrebbero fare le luci dei lampioni quando, dopo una giornata di pioggia, come lunghi animali sembrano flettersi per abbeverarsi al loro stesso riflesso.

C’è in ogni parte di questa silloge poetica il piacere di spaesarsi immaginando versi, d’indugiare su quanto d’indecifrato e sospeso riescono poi a far trasparire di un centro in ascolto silente: potrebbe trattarsi dell’essere stesso, o del sé di chi scrive quando incontra quello di chi legge, fino quasi a fonderli per qualche istante nella stessa bolla di tempo. Qui è infatti possibile riconoscersi nello stesso sguardo di chi ha occhi per lanciare in quella bolla coriandoli di cielo, alla rinfusa, quasi ci fosse, parafrasando una poesia, una rondine nel cuore per ogni lettore che sia pronto a riconoscersi nei pochi istanti che un verso può rendere senza tempo. Forse perché siamo in realtà esseri puntiformi, momenti solitari e assoluti, diaframmi sonori tra opposti versanti del nulla: “come quando tende la tela / e cigolano le sartìe, / noi diciamo: è il vento. Come quando sognano i grilli/ e cade una stella nel lago/ noi diciamo: io sono”. Quel che siamo è un frammento luminoso precipitato, un’allegoria del lavoro del vento che ci perfeziona e con cui si desidera segretamente tornare a volare come una foglia che anela alla sua libertà come alla casa della sua infanzia immota.

Per questo, forse, il poeta può esortare così se stesso insieme a ogni immaginario lettore: “Devi essere più piccolo dei tuoi pensieri, / devi essere nulla, o quasi, / Allora spunteranno le ali d’angelo”. Queste ali saranno non meno esili di quelle invisibili che sanno sostenere, come nella compostezza riconciliata di qualche verso sconosciuto di Sandro Penna “la vecchina ossuta / che tremola al mercato, / una nota di flauto / tenuta a perdifiato”.  

Forse è un angelo nascosto alle sue spalle a tenerla in piedi curva a lambire il vuoto, perché altrimenti quello sarebbe udibile alla vita, inducendola distrattamente ad abbandonarne il corpo. Ma c’è sempre qualcosa d’invisibile da custodire, da proteggere come una gemma preziosa, da trattenere per un soffio d’anima, che forse non è proprio la vita, ma un suo riposto nitore, un suo farsi luce al cuore. Così può capitare che un barbone prima ignoto ci bisbigli nel fiato “che la nostra gemma è il vuoto”, perché è proprio il vuoto che consente a ogni cosa d’essere luminosa.

E può capitare di soffermarsi anche sul quel poco che siamo con una sorta di pietà innata, sebbene sembriamo disprezzare quello “svanire” che pure ci rende più simili agli dei, all’esitante fruscio di una foglia come agli aghi di pino che cadono sulla nostra testa nuda, quasi a ricordarci della nostra smemoratezza.

“Di certe cose è maestra la farfalla, / ha del gusto nel lambire / una grazia nel fuggire; / per noi sfiorare è impotenza, / codarda reticenza lo svanire”. Quando forse dovrebbe essere il contrario, che proprio nello svanire il tempo si fa eterno, in esso annuncia la sua rinascita come la sua inconsistenza, restituendoci la consapevolezza d’essere parte del sogno di un sognatore arcano, e magari proprio quello immaginato da Chuang Tzu nel suo famoso apologo. Ma se le farfalle hanno molto da insegnarci, in questa silloge il ruolo di maestri esemplari spetta però ai pesci, che possono esserci maestri rivelando a noi d’esser pesci fuor d’acqua a nostra volta, gettati fuori dal mondo liquido che ci avvolgeva nel materno ventre, come si potrebbe dire citando per celia Heidegger, pieni d’angoscia eppur guizzanti ancora sino all’ultimo colpo di coda.

E i pesci avrebbero in effetti molte cose da raccontare, ma non sanno dirle esattamente come noi, che invece pensiamo di saperlo fare. Se lo facessero, potrebbero forse usare un tono affettuosamente provocatorio, come questo:

“Fate presto a parlare d’aghi, / infilare, infilzare, / bel modo di riparare! / Che ne sapete voi delle branchie / squarciate dagli uncini. / Dimenticate come soffrono i pesci, / forse perché il nostro sangue / è per voi come l’ombra / d’un pianeta ignoto. / Per voi siamo giocattoli d’argento / e sorridono i bambini / quando esausti ci tirate in barca”.

Siamo noi, i pesci ignoti a se stessi, quelli che si dimenticano di ascoltare e non sanno vedere col cuore. Sono i pesci il nostro specchio, per l’indifferenza che li scambia per giocattoli lucenti. E proprio per questo ci vorrebbe allora un vecchio pescatore, uno paziente e ormai stanco, che solo nella stanchezza c’è la sapienza del mestiere, che tiri le fila ogni giorno sul far della sera e con una mano tiepida e indurita dal sole ci ripari come reti strappate.

“È mestiere dei pescatori stanchi, / fermi sul molo, riparare reti. / Che un grande pescatore ci vorrebbe, / seduto sui calcagni e le dita svelte. / Con l’ago grosso infilare le comete / e legarle a quei sorrisi tristi / di scoglio nella sera”.

E che dire, sempre per giocare a rimanere presi nella rete di questa metafora, di quei pesci filosofi “che danno sempre la colpa ai pesci”? Il poeta non concorda con costoro, e probabilmente nemmeno lo psicoanalista:

“Non so di chi sia la colpa, / ma per me non è dei pesci, / e, forse bestemmio, lo so, /ma dico che è dell’acqua: / non si vede mai, non prende posizione / forse nemmeno esiste / questa santa istituzione / che non si mostra mai / e vuole sempre devozione, / ma dov’era quando il gronco ha mangiato la mamma? / E dov’era quando l’ippocampo / è finito scodato?”

La colpa è dell’acqua, certo; è del mondo in cui si è stati gettati, nell’avvolgente mondo di cui ignoriamo il senso, fatte salve le tracce che il dolore ci permette di scorgervi. Ma il paradosso è che questo dolore che per una sorta di strategia inversa ci consente di conferire senso al fatto d’esser vivi entra in azione proprio in virtù d’una certa riflessa mancanza d’empatia, ovvero di un antidolorifico naturale, mancanza che si rende spesso necessaria quando si parla di pesci. Probabilmente essa è frutto di un’indifferenza funzionale al pescare, o al cibarsi di queste eleganti figure già care ai primi cristiani e coprotagoniste nei Vangeli; o comunque è qualcosa del genere, che ci può indurre a dire:

   “Questo ha lottato poco all’amo. / Sarà stato debole o mesto / Dai, mettilo nel cesto”. Eppure, contrariamente a quanto si crede nel nostro torpore abituale, anche nei pesci c’è qualcosa da invidiare, come una luminosa leggerezza, un’abilità estrema nello scivolare d’illusione in illusione: “Sempre eleganti in fuga e sulle prede, / nell’immenso semplicemente immersi / mai goffi né gonfi d’illusione. / Meravigliosi guizzano d’argento / perfino infilzati dall’arpione”.

A volte, in questi versi di Strumia, sembra anche emergere la dimensione del transfert, ma sempre rimanendo all’interno di un’allegoria d’ambito naturale. L’aura dell’ascolto vi si ritaglia comunque uno spazio necessario, perché nessun processo d’individuazione può prescinderne, e se a volte, parafrasando una delle poesie più belle, la voce di chi gli parla può sembrare quella di un gattino fuggito su un ramo dove non sa più che fare e dove ha già incominciato ad annoiarsi di esitare, al poeta che si cela sotto le spoglie dell’analista verrebbe voglia di dire a quella voce che il giallo che vede negli occhi di chi ascolta “non è un avviso dei lupi”,  ma è l’oro segreto dei suoi stessi pensieri, che non sa di avere, in attesa di sé.

Lo psicoanalista, si sa, regge lo specchio; ma l’esser poeta può consentirgli di restituire a chiunque con cui s’intrattenga in un franco colloquiare immagini molto belle, incisive e chiare, che si stagliano nei versi con portamento discorsivo, come nello spazio familiare di un’amicizia antica durante una notturna passeggiata quieta:

“Se mi chiedi non so darne ragione / ma i lampioni biancastri nella notte / assomigliano a dèi abbandonati, / a ronzanti dolcissimi fedeli, / nel culto morente ed insensato, / gli insetti volanti affaccendati!”.

Ogni volta che ci si riscopre senza guscio, o s’incominciano a vedere delle crepe nelle proprie pareti, o ci si sente come “mongolfiere oblique e semisgonfie” che vanno a sbattere fra le case, si scopre il vantaggio d’essere poeti, e forse ancora di più che analisti o in genere curatori d’anime, perché i primi possono trovare qualche riferimento ben saldo e certo di qualsiasi loro incerto peregrinare in una guida sicura che li riporti a casa da qualsiasi selva più o meno oscura in cui si trovino a transitare.

“Dante, / hai scovato per noi queste giostre / e quando dondoliamo felici / e quando c’inseguiamo pazzi / di gioia sul pelo della lingua, / stai tranquillo ad aspettare, / e quando stanchi ci vedi bisticciare, / spalanchi in un verso le porte del cielo / e per mano ci riporti a casa”.

Alla fine del percorso e nonostante questo saldo ancoraggio aperto verso il cielo, ogni esistenza può tuttavia riconoscersi nelle ragioni di una supplica disarmata, venata solo da una lieve protesta verso la distrazione umana, verso lo sguardo volto sempre altrove che non sa scorgere la stagione presente e viva che ha di fronte, né l’insetto che regala i colori dei fiori disegnandoli per noi nell’aria.

“Non mi schiacciare, / te ne prego, / non sono la zanzara / tormentosa, / sono la coccinella / che posa sulla pelle. / Sono quell’insetto / che, fermando il volo, / regala arcobaleni. / Non mi schiacciare, / te ne prego, / con le dita distratte.” 

Nel vento o tra le grida di ambulanze, nella risacca dei passanti, ci si può riscoprire simili a quell’insetto che implora una pietà sottile e guardando il mare si può con lui scoprire, nel presagio del nulla cui allude il cerchio dell’orizzonte, che quanto di umano ci risulta estraneo è solo una forma peculiare del nostro non essere. Viceversa, l’essere si compie nel suo doloroso svanire tra le braccia morbide del mare ondulato, dove “prima o poi anche i pensieri vanno a fondo / dentro l’acqua che ritorna uguale”.

Alla fine, anche chi è nato scoperchiato, con la pelle già pronta per essere graffiata dal verso delle cicale, può imparare a premere i tasti di una partita che scopre ogni giorno truccata, ma può farlo senza dimenticarsi della sua capacità di chiedere a sua volta, come quell’insetto che girovaga tra i fiori, qualcosa di simile a quanto chiede anche Fernando Pessoa in alcuni dei versi più essenziali tra quelli mai rivolti al cielo: “Non ci sarà, infine, / per le cose che sono,/ non la morte, bensì / un’altra specie di fine, / o una grande ragione: / qualcosa così / come un perdono?”.

(*) Pozzanghere di Filippo Strumia, Einaudi editore (2011), pagine 132, euro 12,50

Aggiornato il 13 marzo 2025 alle ore 11:57