Ritratti. Iron Maiden: speranza e gloria

Quanto può cambiare una musicassetta a un ragazzino che non sa cosa farà da grande? Quanto può farlo se è una notte di Capodanno, in un posto lontano e piccolo come un granello di sabbia? Quanto possono far scaldare il sangue nelle vene Run To The Hills o Running Free? Tanto, troppo. Anche se non è mai poco. Questo l’ingresso a gamba tesa degli Iron Maiden in chi, molti anni dopo, recupera in un’edicola della Capitale l’enciclopedia del Rock e i Giganti dell’Heavy Metal (Sprea editori).

Dici Iron Maiden. E pensi a un viaggio partito da Londra che approda nell’universo mondo. Con Eddie The Head, meglio conosciuto come Eddie, mascotte della band. Ma anche Paul Di’Anno, Bruce Dickinson, il granaio di Steve Harris. La gavetta negli anni Settanta, il debutto negli anni Ottanta, il tutto esaurito negli stadi.

Come indicato nell’Enciclopedia sopracitata, in un passaggio – testo Paul Branningan, traduzione e adattamento di Luca Fassina – viene indicato che “prima di The Number Of The Beast, gli Iron Maiden erano semplicemente una delle band della New Wave of British Heavy Metal. Dopo hanno raggiunto una fama mondiale”. E poi quel tour che “distrusse gli Iron Maiden” (testo Johnny Black) ovvero il World Slavery Tour, un giro nel globo durato oltre un anno – dopo la pubblicazione di Powerslave nel 1984 – che porterà a referto 360 show in 26 nazioni. Così il batterista Nicko McBrain: “Per me ancora oggi è un miracolo essere sopravvissuti. È stato il tour con il programma più sfiancante che abbia mai fatto… a circa tre quarti del calendario era come se avessimo inserito il pilota automatico”.

Sembra ieri da quella musicassetta. E da chi, in passato, ha “alzato la voce e sbattuto le porte”. Gli Iron Maiden, però, restano a imperitura memoria. Oltre ogni confine.

Aggiornato il 01 marzo 2024 alle ore 16:44