Il teatro di marionette di Heinrich von Kleist

Il componimento di Heinrich von Kleist si distingue per la sua concisione, delineando un’interessante trama che emerge dall’incontro tra il narratore e un danzatore, denominato signor C. Questi ultimi si immergono in un dialogo riguardante le agilità di alcune marionette e il principio vitale che le muove. In un’acuta conversazione, il ballerino sorprende il suo interlocutore sottolineando come un danzatore, nel suo percorso di perfezionamento, possa trarre preziose lezioni dall’osservazione delle marionette. Il signor C invita, in particolare, a riflettere sull’armoniosa eleganza del loro movimento, intriso di una spontanea grazia. Egli espone come la gestione del centro di gravità di ogni articolazione possa facilitare l’acquisizione del movimento ambìto; inoltre, illustra come la linea lungo la quale transita tale centro di gravità non sia altro che il percorso dell’anima del danzatore, l’elemento che coordina ogni membro in un’espressione coerente.

Il signor C prosegue, illustrando un confronto con i movimenti di un celebre ballerino dell’epoca, impersonante Paride nell’atto di offrire la mela a Venere. Si nota in tale esibizione che l’anima del ballerino sembra risiedere, in modo sgradevole alla vista, persino nel gomito. Di fronte allo scetticismo del suo interlocutore, che fatica a credere che in una marionetta possa risiedere più grazia che in un corpo umano, il signor C narra l’episodio di un abile schermidore incapace di colpire un orso. Quest’ultimo, con sorprendente facilità, parava ogni colpo, essendo indifferente alle finte.

Questo testo si apre a molteplici interpretazioni, ma quale messaggio trasmette al giurista? A prima vista, sembra non dire nulla di specifico. Tuttavia, esso evoca riflessioni significative. L’analogia presentata pone infatti l’accento sulla dicotomia tra l’essere e il dover essere, tematica che per lunghi anni ha rappresentato una questione spinosa. L’autore, pur non adottando una posizione esplicita, introduce uno spostamento di prospettiva: da una parte tale spostamento può disorientare il giurista, dall’altra lo posiziona in un punto di osservazione privilegiato, da cui può scrutare lo spazio metafisico in cui il diritto prende forma e la giustizia si manifesta.

Pubblicato nel 1810 all’interno delle pagine dei Berliner Abendblätter, “Il teatro delle marionette” rappresenta l’unico saggio sottoscritto da Heinrich von Kleist. Quest’opera, che si immerge con profondità nel tema della grazia, emerge come un contributo significativo nel fervido dibattito estetico che animava la Germania della seconda metà del XVIII secolo. Tale dibattito vedeva illustri partecipanti, quali Johann Joachim Winckelmann con la sua “Storia dell’arte nell’antichità” (1764), Christoph Martin Wieland nel “Musarion” (1769) e nelle “Grazie” (1770), Friedrich Gottlieb Klopstock in “La Repubblica dei dotti” (1772), e, non da ultimo, Friedrich Schiller con il suo saggio “Grazia e dignità” (1793).

Kleist, inserendosi in questo dialogo culturale di grande risonanza, si distingue per un’originalità che risulta quasi inafferrabile e ardua da eguagliare. Le sue opere, spesso incomprensibili e di difficile digestione per i suoi contemporanei, presentano una caratteristica unicità.

In particolare, nell’affrontare il tema della grazia, Kleist sceglie come fulcro della sua riflessione il teatro delle marionette. Quest’ultimo, oggetto di categorica condanna da parte della censura per la sua presunta volgarità tematica e linguistica, diventa il mezzo attraverso cui Kleist disloca il discorso dalla nobiltà del sublime, liberando così il concetto di grazia da qualsiasi connotazione morale o etica, a differenza di quanto operato da altri autori, in particolare da Schiller, che lega indissolubilmente etica ed estetica.

Attraverso questa prospettiva, Kleist non solo capovolge ma anche svuota e ridicolizza l’idea tradizionale di grazia, così com’era comunemente accettata nell’ambito estetico settecentesco. La sua è una dissacrante operazione di capovolgimento e svalutazione della tradizione e della classicità, che lo rivela come una figura decisamente alternativa e avanguardistica.

La reinterpretazione del mito operata in “Pentesilea”, la sua tragica opera maggiore, ne è un esempio emblematico e ineguagliabile. Questa sua peculiare visione, dopo un lungo periodo di oblio, caratterizzato da molti come ingiusto e colpevole, viene riscoperta e valorizzata nel secolo successivo, il Novecento, dall’avanguardia e dall’espressionismo, movimenti anch’essi carichi di alternatività e innovazione.

Il saggio, articolato sotto forma di un colto dialogo, si dispiega tra l’autore e il distinto signor C, étoile del Teatro dell’Opera nella città di M. Sorprendentemente, è il signor C stesso, suscitando stupore nel narratore, a propugnare l’eccezionale primato della marionetta in termini di eleganza, grazia e impatto artistico, superando qualsivoglia danzatore umano, per quanto talentoso e tecnicamente dotato possa essere.

Dunque, cosa siamo chiamati a interpretare quando ci confrontiamo con questo testo di Von Kleist, descritto da Thomas Mann come una “gemma di estetica metafisica”? Nessuno può affermarlo con certezza, poiché il geniale scrittore tedesco ci ha lasciato pochissime, ma dense pagine. Nonostante ogni tentativo, queste rimangono avvolte nel mistero, consentendo interpretazioni multiformi, etiche, filosofiche, persino teologiche.

Tuttavia, nessuna sembra in grado di esaurire il senso non solo di ciò che l’autore esplicita, ma soprattutto di ciò che tace, lasciando alla nostra capacità di comprensione il compito di interpretarlo. In effetti, è lecito affermare che questo “Teatro delle Marionette,” analogamente all’Oracolo di Delfi, non afferma né nega nulla; si limita a significare.

Ma cosa significa, e soprattutto, quale significato assume per il giurista? Proviamo a riflettere con la dovuta attenzione.

Innanzitutto, è importante notare l’assenza di un contesto narrativo, senza riferimenti temporali o spaziali che possano delimitare il testo. Ogni parola naviga in un’atmosfera rarefatta, atemporale e del tutto alocalizzata, con l’eccezione di un non-luogo indicato con la lettera M, rendendo il testo completamente metafisico.

Inoltre, i due personaggi che dialogano sono privi di volto e nome, eccetto per il primo ballerino del teatro, designato con la singola iniziale C. Questo suggerisce che i dialoganti non sono personaggi creati dall’immaginazione dell’autore; qui, infatti, non ci sono personaggi. Stiamo dialogando con la nostra coscienza. Qual è, per Von Kleist, il significato complessivo di questo dialogo? È la Grazia, intesa come perfezione dei corpi e, attraverso di essi, dell’anima.

Il primo ballerino, presumibilmente celebre e affermato, suscita la sorpresa del suo interlocutore perché ha scelto di assistere a uno spettacolo di marionette invece di restare davanti allo specchio a perfezionare i suoi passi di danza per il pubblico.

C risponde che nulla raggiunge l’assoluta perfezione della Grazia come le marionette. Un danzatore può commettere errori, ma una marionetta, se i fili sono tirati con la giusta casualità, non sbaglierà mai. In altre parole, mentre la marionetta è esattamente ciò che deve essere e si muove esattamente come deve muoversi, l’uomo non può raggiungere questa perfezione assoluta, destinato a vedere appassire la propria vita nel vano tentativo di raggiungere una Grazia sempre inaccessibile.

Lo stesso vale per l’orso sfidato in un duello di spade da un abile schermidore. L’orso non si lascerà ingannare dalle rapide finte del duellante perché non comprende cosa sia una finta, riuscendo a parare tutti i colpi e sconfiggere inevitabilmente l’avversario. C spiega che solo Dio può confrontarsi con la materia in questo modo, il punto in cui i due estremi dell’anello del mondo si congiungono.

In altre parole, essere e dover essere coincidono perfettamente solo in Dio e nella materia bruta, rappresentati qui dalle marionette o dall’orso. L’uomo, invece, è condannato a vagare perpetuamente tra la propria imperfezione e il tentativo di superarne i limiti: la Grazia resta un miraggio. Tuttavia, in questa irrisolta mediazione, riconosciuta anche da Blaise Pascal (ni ange, ni bête…), si situa lo spazio della giustizia. La giustizia ha il compito di colmare la frattura tra essere e dover essere, alimentando la libertà umana nel tentativo di ricondurre il primo, con le sue inevitabili cadute, alle inderogabili esigenze del secondo. La Grazia, sebbene irraggiungibile nella sua completezza, sollecita l’uomo, gli conferisce un senso, indicandogli una via di salvezza.

Ecco perché la giustizia, impegnata in questo compito essenziale di riportare ciascuno di noi alla perfezione della Grazia, orienta l’agire umano, gli dona un significato e lo invita a perseguirlo. Essa, infatti, non afferma né nega, ma significa. Il giurista lo sa. Comprende che, da questa prospettiva, ogni uomo è un tragico intervallo, un abisso di dolore, ma anche di vita e speranza, sospeso tra l’essere e il nulla, troppo meno dell’essere, troppo più del nulla. E proprio per questo, deve rimanere fedele, a qualsiasi costo, alla giustizia, l’unico cammino percorribile.

Come ribadiva Sant’AgostinoHomo capax Dei: se avessimo dimenticato questo principio, Von Kleist ci ricorda saggiamente di riportarlo alla memoria.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 13 febbraio 2024 alle ore 20:11